domenica 12 maggio 2013

Spot Lancia Y (2011) - Il lusso è un diritto

Decostruire la pubblicità: Lancia Y (2011)



C’era una volta la reclame. Un manifesto, un articolo, un messaggio, reclamizzavano un certo prodotto per renderne nota al pubblico l’esistenza. È questa, in fondo, la pubblicità: la diffusione pubblica di una notizia. La pubblicità era affidata a figure popolari come il pazzariello napoletano. Oppure venivano pubblicati inserti giornalistici che descrivevano accuratamente le caratteristiche del nuovo prodotto, in modo da convincere il pubblico della sua bontà e utilità. Poi si ricorse alla propaganda, invenzione del periodo fascista (pur se non invenzione fascista), consistente nell’arte di convincere, attraverso la comunicazione pubblica, intere masse. Manipolarne la psicologia – la psicologia di massa, come si prese a dire. La propaganda cominciò a sfruttare le tecniche della pubblicità a fini politici, inserendo però, nella stessa pubblicità, caratteristiche nuove, divenute poi tipiche della pubblicità commerciale come la conosciamo. Il messaggio, in primo luogo, che venne via via semplificandosi. La ricerca del controllo. L’imperativo diretto. Lo slogan. «I want you for the US Army».

Spot CheBanca! (2011)

L’inno alla dissoluzione: il carnevale della paura.


La campagna pubblicitaria di CheBanca!, curata da casiraghigreco&, si è imposta negli ultimi anni come una delle più definite e caratterizzate. La formula, standardizzata, è molto aggressiva. Una canzone, di solito molto nota, legata alla tradizione popolare italiana, facilmente riconoscibile ed orecchiabile, di cui presumibilmente il testo è ben noto, ricontestualizzata per veicolare il messaggio pubblicitario e le offerte della banca; un intero esercito di festeggianti coribanti che danzano e cantano, in perfetto stile Broadway; i colori vivaci e netti di un cartoon: sono questi gli elementi immediatamente riconoscibili nella serie di spot di questa campagna. I protagonisti, quasi sempre sobri e ben vestiti, tutto sommato abbastanza anonimi da potersi identificare intuitivamente con l’italiano medio, indicano in maniera immediata il pubblico a cui volta per volta lo spot si rivolge: professionisti, lavoratori, novelli sposi, pensionati, donne in carriera. Il musical che fa da cornice alla quotidianità suggerita da questi personaggi in giro per la città o nei propri uffici vuol essere ciò che ogni musical, in fondo, è sempre stato: un intrattenimento esorcistico che tenta di iniettare dosi di ottimismo nello stagnante mercato finanziario.

Spot Diesel (2010)


Be Stupid - Filosofia Diesel


La Diesel ha lanciato nel 2010 una massiccia campagna pubblicitaria molto essenziale: una scritta a colori molto accesi posta su sfondo nero, o in certi casi sullo sfondo di una foto che sottolinea il messaggio del testo.
L’intera “filosofia” proposta dalla Diesel è esplicata nel video che si trova sul sito della ditta nonché, ovviamente, su YouTube. Ma i manifesti che hanno letteralmente invaso la cartellonistica urbana mostrano soltanto alcuni frammento, decontestualizzati, in cui si ripropone con insistenza l’opposizione tra “smart” e “stupid”. Ovviamente la forza di questa pubblicità sta tutta nella diffusione, ovvero nella ripetitività del messaggio, e gode soprattutto della circolazione: insomma, come ogni campagna pubblicitaria, si avvantaggia tanto della critica – e forse tanto più della critica – quanto dell’approvazione.

Spot Ferrarelle (2009)


Il bicchiere mezzo pieno


Ricordate la campagna pubblicitaria della Ferrarelle di qualche anno fa? Quella del bicchiere mezzo pieno, per intenderci. Romantica, suasiva, elegante, efficace.
Si può notare una somiglianza fortissima con la campagna pubblicitaria della Fiat che avevamo già analizzato in questo laboratorio (http://proiezionifantasmatiche.blogspot.it/2013/04/spot-fiat-500-2007.html). In effetti siamo sullo stesso terreno: entrambe puntano su una forte emozionalità; entrambe utilizzano immagini (in cui il bianco e nero svolge un ruolo chiave) cariche di significatività psicologica; entrambe hanno un testo molto lirico, sottolineato da una musica semplice, romantica, molto suggestiva, stile Final Fantasy, per intenderci…

giovedì 2 maggio 2013

La pelle che abito

La pelle che abito di P. Almodóvar, col, 117', Spagna, 2011



Elogio della superficie, del colore, della forma autonoma dall’assenza, della follia dell’occhio che vuole solo guardare per guardarsi senza riflettere, per focalizzare la dimensione di un abitare ormai (o forse da sempre?) privo di vie di fuga, artificiale, sì, ma non per questo meno vero di quello autentico immerso nel flusso del tempo senza montaggio.
La storia che racconta Almodóvar mi lascia perplessa: mi sembra interessante, ma mi delude; mi piace quello che vedo: immagini che mi proiettano in quel cinema fatto di cura per l’estetica della comunicazione visiva; rapide sequenze che diventano contenitori di altre cose che amo e mi fanno sentire a casa (opere d’arte familiari, il bianco e nero che mi proietta nella dimensione corporea e poetica del cinema muto o di quello che vuole citarlo; la scrittura sul muro che mi ricorda le pagine dei libri o gli appunti ornati da disegni riflessivi che si fanno quando si ascolta sognando), ma il racconto mi respinge, a tratti mi sembra banale, scontato, prevedibile. E poi alcune immagini sembrano volersi prendere di gioco di me, ricucendomi addosso, attraverso la pubblicità en passant di noti prodotti in commercio, la quotidiana veste da consumatrice, che guarda in tv gli spot di trucchi o motociclette, mentre quello che cerco, quando guardo un film, è riconoscermi solo come consumatrice interna, come divoratrice di fotogrammi e di storie che emozionano e fanno pensare o ricordare, di musiche qualche volta, quando l’intento della regia non è quello di ventriloquizzare ciò che vedo, ma di renderlo dissonante, di creare strade parallele.

sabato 27 aprile 2013

Spot FIAT 500 (2007)

Decostruire la pubblicità: FIAT 500 (2007)



Questo è lo spot col quale la FIAT ha tentato alcuni anni fa di rilanciare il suo marchio. Tutte le versioni hanno la stessa struttura e cambiano solo alcuni personaggi e alcune immagini. Il messaggio è sempre lo stesso. In tutti i casi, si assiste ad una scena tratta da Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore che fa da cornice allo spot vero e proprio: un ragazzino (Totò Cascio), col quale evidentemente lo spettatore è indotto ad identificarsi, entra in una sala cinematografica e guarda scorrere sullo schermo le immagini più significative del Novecento italiano: gli scioperi, le stragi, le manifestazioni e le contestazioni, i personaggi più popolari, il papa. La FIAT si impone così come un elemento imprescindibile della storia e dell’identità italiane. E certo chi potrebbe contestarglielo? Nel bene e nel male, la FIAT ha dominato la scena italiana dell’ultimo secolo, facendo valere tutto il peso politico ed economico della sua presenza.

martedì 16 aprile 2013

Antichrist


Antichrist di Lars von Trier, col, 104’ (versione cattolica), Dan, Ger, Ita, Sve, Pol, 2009.


Un film orribile: l’horror secondo Lars von Trier. Ovvero, l’orrore cosmico ‒ puro e semplice, calato nella relazione di genere. In verità, il film potrebbe forse essere letto sotto molti riguardi, da diversi punti di vista ma la lettura di genere non sembra essere troppo peregrina se è vero, come è vero, che tutto il film ruota attorno al rapporto tra marito e moglie, in una assurda escalation d’orrore e di violenza, fino alla tragica conclusione: il sacrificio della donna, strangolata dal marito. Orrore ‒ è bene sottolinearlo ‒ non terrore. Certo, il terrore abbonda, nel film, come la crudezza della violenza messa in scena.  Tanto più che si mescola alla delicata bellezza delle immagini, all'aria di Haendel che accarezza e modula l'amore e l'orrore, la poesia e la morte.

sabato 6 aprile 2013

Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto

Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto di Lina Wertmüller, col, 125’, It, 1974



- Oh amore…il primo, è vero sai: avresti dovuto essere tu il primo.
- Il primo? Si chiama “primo” uno che poi dopo ci sta il secondo eh!

Vero Amore o falso Amore? Verità o menzogna? questo l’interrogativo sollevato nel clou del dibattito dopo la visione di "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto". Un film in cui la regista Wertmuller getta lo spettatore in una situazione irreale ma costruita sul realismo di immagini e dialoghi. Grazie alla grande interpretazione dei protagonisti, Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, una coppia affiatata vive e fa vivere, tra scene ironiche e grottesche, emozioni contrastanti e vertiginose, passando da un raccapricciante sdegno a un’amorevole comprensione. Il drammatico finale lascia un velo di malinconia e proietta lo spettatore nel mondo reale, in un vortice di riflessioni sull’essere: donna/uomo – schiava/padrone – verità/menzogna – amore/non amore - sesso/potere – borghesia/proletariato – settentrione/meridione.

sabato 23 marzo 2013

Boys don't cry

Boys don't cry, di K. Peirce, col, 118', USA, 1999.

Girls, don’t cry ! 


"La donna clitoridea può essere molto vagheggiata dall'uomo finché egli l'assimila a una donna estrosa (...), ma appena egli scopre dietro le apparenze di una femminilità non sospetta la struttura di individuo non sopporta la reciprocità della coscienza e del giudizio, lascia, si ritrae, pone l'ostracismo, si conforta in un unione riposante, materna."
Carla Lonzi, 1971
Teena nasce a Lincoln, Nebraska, nel 1972, è ancora una ragazzina quando, stando alle dichiarazioni della madre, viene violentata da un parente e decide di vestire panni maschili, ma questo in “Boys don’t cry” di Kimberly Peirce non viene raccontato ed è soltanto una delle incongruenze imputate al film. Il giovane Brandon, poco più che ventenne, fugge da Lincoln per guai con la giustizia (pare che amasse fare regali costosi alle sue fidanzate rubando) e raggiunge un altro punto del Nebraska, la piccola città di Falls City, ed è qui che per la regista ha veramente inizio la storia del personaggio ed ha compimento la parabola di una vita. A Falls city - che è interessante leggere come “la città della caduta” - Brandon stringe amicizia con quelli che saranno i suoi carnefici, John Lotter e Tom Nissen, e s’innamora - he falls in love - di Lana Tisdel, che troverà da ridire sul personaggio calcato su di lei dalla regista e da Chloe Sevigny, perché fondamentalmente “White trash”, pigra, alcolizzata ed incolta.

venerdì 22 marzo 2013

Parlo zittamente

C.D. Friedrich - Il viandante sul mare di nebbia

L’autismo è una sfida. Si manifesta, innanzitutto, nel silenzio. E questo silenzio è una sfida e una pro-vocazione. Ma non è mai un rifiuto, come noi, invece, per lo più, tendiamo a considerare. Piuttosto, quel silenzio è una sfida lanciata al nostro rifiuto. Siamo noi a rifiutare quel silenzio - a negare la voce che risuona in quella pro-vocazione.
«Noi cosiddetti normali non abbiamo difficoltà ad attribuire significati alle cose, alle persone, alle parole, alle espressioni, ai comportamenti degli altri e così via. Il mondo ci appare normale così come i nostri sensi ce lo consegnano, infatti i sensi inviano al cervello informazioni e messaggi fondamentali per la crescita della persona. Nell’autistico tutto questo non avviene e il soggetto si trova spesso a vivere in un mondo incomprensibile, estraneo, oscuro e confuso, per non dire minaccioso».
In questa spiegazione si dà una prima indicazione, in negativo, per ascoltare l’autismo. Ciò che l’autismo non è: piattezza della normalità, banalità del quotidiano, informazione e messaggio. Di contro, Federica Aramu ci dà un’indicazione in positivo: «La mia libertà latente, lascia clandestinamente spazio alla capacità di navigare nel tempestoso mare della mia fantasia, la quale, crea venti deleteri al mio clamoroso silenzio: samaritano massacro, che mi assolve sistematicamente dalla quotidianità, naufragando però verso derive dannatamente inquietanti. Volgo solitamente maree di allusioni alla mia malattia cercando continue vie di fuga, ma la cosa più logica da fare, sarebbe continuare a vivere negligentemente nel salomonico attonito labirinto; quel labirinto che stenta a trovare l’uscita».

21 marzo 2013 - Zittamente parlo

Alchimie d'un Equinozio Primaverile:
Affinità Elettive, Nuovi Equilibri, Inter-Azioni.
Tutto questo è accaduto giovedì 21 Marzo all'Ex Asilo Filangieri Balena; Pensieri Dal Basso, Fantasmatica AssociazionePs, Autism AID, Centro Polifunzionale "E' più Bello Insieme", Adriana e Davide, Brunella, Federica...proprio così... come Claudio D'Agostino ci ha detto e dimostrato: "tutti insieme", 5 soggetti distinti ma non diversi, cittadini differenti tra loro ma non atomicamente isolati, appassionati, lavoratori dell'immaginario...proprio così... "tutti insieme"!!!

giovedì 14 marzo 2013

Considerazioni a latere - La solitudine dei maschi



Tony e Antonio s’incontrano, al mercato. Si guardano negli occhi. Si riconoscono. Cosa riconoscono? Cosa vedono l’uno negli occhi dell’altro? La scena è archetipica, ricorda l’incontro tra le due autocoscienze di Hegel. Le autocoscienze, nella Fenomenologia dello spirito, si vedono, si riconoscono, lottano per il riconoscimento ― per l’autoaffermazione. Maschilismo e violenza. L’autoaffermazione si basa sul riconoscimento dell’altro. Sull’affermazione della propria libertà assoluta di fronte alla morte. Chi teme per la propria morte, cede libertà, si sottomette all’altro. Riconosce l’altro come signore.

mercoledì 13 marzo 2013

L'uomo in più

L'uomo in più di Paolo Sorrentino, col, 100', It, 2001

’A vita è ‘na strunzata
(Tony Pisapia)

Paolo Sorrentino evidenzia la condizione esistenziale di due uomini (Tony e Antonio Pisapia) che hanno lo stesso nome e destini più o meno simili, per successi e sconfitte. Le due storie scorrono parallele, i protagonisti non si conoscono e non s’incontrano mai, se non nel finale, quando il loro sguardo s’incrocia per un attimo al mercato del pesce; da qui poi si delinea la chiusa della trama in cui il regista, anziché far vedere i due personaggi uniti e affiancati nel prosieguo della loro vita, in un lieto fine sperato dallo spettatore, porta alle estreme conseguenze il tratto esistenziale dei protagonisti con il suicidio di Antonio e l’omicidio commesso da Tony.

L'ampio e acceso dibattito che è seguito alla visione del film si è aperto in primis con il tentativo di identificare il “perdente” e il “vincente”. Il perdente è senz’altro Antonio, anche se è una figura pulita e onesta, un calciatore che non accetta compromessi (per realizzare facili guadagni con truffe sulle partite propostegli dai compagni di squadra) e il suo unico sogno è di diventare allenatore. Antonio appare come un uomo flemmatico, sensibile e fondamentalmente triste e solo, ancor di più lo diventa dopo l’incidente in campo con conseguente rottura dei legamenti, il che non gli permette più di giocare. Così proietta il suo interesse alla realizzazione dell’unico desiderio, tanto da far allontanare, senza rendersene conto (o rendendosene conto?) sua moglie, che finisce col tradirlo e lo abbandona. Egli non reagisce, ma si limita solo a dirle “sei una puttana!” e la lascia andare via. Si chiude nel suo baratro di silenzio, nel suo mondo fittizio del calcio continuando a sperare di ritrovare il successo del passato o una nuova realizzazione della propria esistenza ma, alla fine, quando comprende che il suo sogno sarà irrealizzabile, si uccide con un colpo di pistola, sul campo sportivo. È perciò perdente, perché muore, perché non ha avuto la forza di continuare a vivere! Ha dimostrato che il suo solo obiettivo è raggiungere il potere, il successo, il lavoro! Si eleva immediata l’osservazione: ma perché gli uomini proiettano la loro vita solo sul lavoro? Non esistono anche altri orizzonti? Perché non comunicano con chi vive loro accanto? Perché scelgono la solitudine pur vivendo una relazione? Perché tra di loro non si confidano e confortano? Perché non sono come noi donne, che troviamo naturale confidare nelle amiche, ci aiutiamo reciprocamente, sentendo nostre le sofferenze e violenze che le altre subiscono?

giovedì 7 marzo 2013

Amore e libertà - considerazioni a latere

Frank von Stuck - "Medusa"
Che cosa ci fa paura nei peli della Donna scimmia? Cosa attrae e inorridisce i maschi nel corpo cavo della donna amata? Cos'è che produce orrore e rende agli occhi della donna alieno e mostruoso il proprio stesso corpo? La terra nera? La natura? Forse il non appartenere mai interamente a se stessa? "La donna scimmia", evidentemente, sotto la lente d'ingrandimento del caso estremo, individua in questo corpo e in questo mistero il terreno di incontro e di scontro - di violenza, interesse e tenerezza - che lega l'uomo alla donna - e viceversa - in quel vincolo tenero e violento che è l'amore.

Nietzsche concepiva l’amore come una lotta tra i generi. E forse, a pensarci bene, non aveva poi tutti i torti. Volontà di potenza. Camuffata da buoni sentimenti, s’intende.

Dobbiamo rassegnarci? Dobbiamo accettare l’impossibilità di superare veramente il muro d’incomprensione e di alienità che separa maschile e femminile? Dobbiamo magari anche smetterla di volerci confrontare e tentare di addivenire ad un superamento (dialettico) della dialettica oppositiva?

Certo è che, quando maschi e femmine si confrontano sui temi legati al genere, sembra davvero che parlino due lingue inconciliabili. Siamo stranieri, gli uni alle altre. E le altre, spesso, lo sono a se stesse - straniere, intendo - oltre che a noialtri. Ci manca la lingua, una lingua madre comune che ci faccia intendere. Il logos è maschile. Altro linguaggio, però, pare non lo si riesca a parlare. E dunque?

martedì 5 marzo 2013

La donna scimmia

La donna scimmia, di M. Ferreri, B/N, 92', Italia/Francia, 1965



"Sono una donna, non un fenomeno!"
(Maria)


Il dibattito su La donna scimmia di Marco Ferreri si è concentrato innanzi tutto sulla modernità del film che, pur essendo stato girato negli anni Sessanta, affronta il tema attualissimo della spettacolarizzazione del femminile e dei concetti di “normalità” e di “mostruosità”. Ciò che colpisce oggi, infatti, sono corpi “mostruosi” perché trasformati dalla chirurgia estetica per rispondere ai canoni imperanti di “normalità” e “bellezza” televisiva. Successivamente, si è riflettuto sull’ambiguità dei personaggi, sui loro ruoli e sui loro rapporti: è possibile che Antonio (Ugo Tognazzi) ami Maria (Annie Girardot) o il suo comportamento è sempre e comunque dettato da interesse? La stigmatizzazione di Maria come “fenomeno” non sembra intaccarlo, anzi, sembra suscitargli umanità e fierezza. Ma questo suo atteggiamento è autentico o fa parte del copione che il suo ruolo di marito gli impone? D’altra parte, Maria, nonostante dimostri in più punti una grande consapevolezza e capacità decisionale (quando si ribella alla permanenza con il professore perverso; quando impone al marito di adempiere ai suoi doveri coniugali; quando decide di portare avanti la gravidanza) soccombe al suo ruolo di moglie e quindi alle direttive di Antonio, coprendosi quando passeggiano per strada. Tuttavia, durante gli spettacoli, Antonio trasforma Maria da fenomeno da baraccone a donna fatale che seduce con la sua nudità, dandole in questo modo una possibilità di vita che l’ospizio delle suore in cui era cresciuta non avrebbe mai potuto offrirle. Spogliandoci dalla prigione dei ruoli, delle sovrastrutture e delle imposizioni socioculturali riusciremmo a raggiungere il nostro vero Io?

sabato 2 marzo 2013

Giulietta degli spiriti

Giulietta degli spiriti, di Federico Fellini, col., 137', It, 1965


GIULIETTA DEGLI SPIRITI di Federico Fellini, col., 137', It, 1965. 

Atto d’amore o allegoria di una giustificazione insostenibile?
La riflessione intorno a Giulietta degli spiriti deve necessariamente giocare di equilibrio tra la realtà e la finzione.
Dietro alla rappresentazione c’è lo sguardo di un uomo (Fellini) che dirige moglie (Masina) e amante (Milo), due icone agli antipodi del femminile, due  donne prive di mistero e tuttavia profondamente se stesse, fino in fondo. Nel ruolo come nella vita.
La domanda che si è imposta sulla posizione di Fellini rispetto al suo film coinvolge naturalmente il vissuto di una relazione d’amore. Ci si interroga sul gesto, cosciente del regista e dichiarato, ma forse non profondamente sondato, di rappresentare l’universo interiore, sfaccettato e fantasmatico, della sua compagna e musa come omaggio all’imperscrutabilità di quel femminile rappresentato da Giulietta, come forma di scambio d’amore per cui la musa diventa oggetto inafferrabile della viva creazione artistica oppure come un’intollerabile manipolazione, una vera e propria violenza, da parte del regista sull’attrice, che le impone di recitare il suo giudizio, da parte del marito sulla moglie, che le impone come maestra di vita la sua amante, da parte dell’uomo sulla donna che diventa padrone assoluto della salvezza e della condanna.
L’interrogativo è duro e non lascia molto scampo. Si è praticamente divisi su questo punto perché ognuno segue quella voce interiore fatta di esperienza, giudizio e speranza che a ciascuno  ha suggerito la singola tessera di quel caleidoscopio di opinioni di cui è fatto dibattito. In questo rispetto delle posizioni, tra le tanti voci, si avvertiva chiaramente una mancanza data dalla consapevolezza del fatto che Giulietta, l’attrice, la moglie, la donna resta a noi sconosciuta, nella vita, nonostante l’evocazione grazie alle parole di Kezich, così come nel film, ed è forse questo confine nascosto – questa differita, che sottolinea la profonda impossibilità dell’essere di coincidere – a restare intatto dalla rappresentazione del film.
È impossibile restituire la trama di un film come “Giulietta degli spiriti”. 
Fellini, forse oggi amaramente distante da un pubblico italiano disabituato al genio, risulta ai più pesante o ridondante, quasi offensivo con il sincretismo della sua rappresentazione. Il suo genio non potrebbe essere compreso a partire da una spiegazione dell’intreccio del film.
 I temi messi in campo sono veramente tanti: il corpo, la sessualità, la critica alla religione, l’autonomia della donna, il tradimento, il sacro, il profano, il riso, lo spiritismo, il tempio e la casa.
Ciò che è possibile restituire, in uno scarno resoconto come questo, sono le domande suscitate dai singoli film di volta in volta che creano il terreno di questo percorso laboratoriale sul genere.
E allora si deve affrontare con serietà quanto in ogni rapporto d’amore è possibile restituire la verità dell’altro/a, in questo desiderio di possedere l’altro/a fino in fondo, fino quasi a ricrearlo, come accade con lo psicodramma di Giulietta che diventa la metafora di tutto il film. Ricreare l’amata/o,  come un dio, se l’amore è una religione, nel desiderio incontenibile di comprenderlo.
Ma se l’amore non è una religione, allora questo sentimento non sembra passare in fondo  sempre attraverso una violenza? Una violenza che riconosciamo essere solo maschile ma che forse è propria della relazione d’amore.
Certo è che Fellini ha inviato, attraverso il corpo minuto e agile della moglie, il suo messaggio alle donne: ribellatevi alla santità! Sottraetevi alla graticola! Anche se il vostro tempio deve essere la casa, sacerdotesse le cameriere, offerte all’altare le conserve.
Sottraetevi alla condanna della religione e abbracciate la sensualità del corpo e della libertà!
Forse scoprirete che ciò che amate è in realtà una condanna da allontanare e che silenziosamente non aspettate altro che la sua partenza.

Quanto parlano ancora alle donne queste esortazioni?
Quanto ancora gli uomini, quelli avvertiti, innamorati, si sentono di ripeterla.
 Per dirla con la provocazione bonaria lanciata agli uomini durante la discussione: “Quanto potete fare di meglio?”


"Tutta la mia vita è piena di gente che parla, parla, parla, andatevene! Tutti fuori di qui"
(Giulietta)


Atto d’amore o allegoria di una giustificazione insostenibile?

La riflessione intorno a Giulietta degli spiriti deve necessariamente giocare di equilibrio tra la realtà e la finzione.

Dietro alla rappresentazione c’è lo sguardo di un uomo (Fellini) che dirige moglie (Masina) e amante (Milo), due icone agli antipodi del femminile, due donne prive di mistero e tuttavia profondamente se stesse, fino in fondo. Nel ruolo come nella vita.

La domanda che si è imposta sulla posizione di Fellini rispetto al suo film coinvolge naturalmente il vissuto di una relazione d’amore. Ci si interroga sul gesto, cosciente del regista e dichiarato, ma forse non profondamente sondato, di rappresentare l’universo interiore, sfaccettato e fantasmatico, della sua compagna e musa come omaggio all’imperscrutabilità di quel femminile rappresentato da Giulietta, come forma di scambio d’amore per cui la musa diventa oggetto inafferrabile della viva creazione artistica oppure come un’intollerabile manipolazione, una vera e propria violenza, da parte del regista sull’attrice, che le impone di recitare il suo giudizio, da parte del marito sulla moglie, che le impone come maestra di vita la sua amante, da parte dell’uomo sulla donna che diventa padrone assoluto della salvezza e della condanna.

domenica 17 febbraio 2013

Il segno di Venere

Il segno di Venere, di Dino Risi , B/N, 93’, It, 1955




"Questa è la cucina e qui comando io"
(Zia Tina)

Il segno di Venere, potrebbe forse essere definito come un film “protofemminista”.

Dino Risi propone, attraverso la storia di due cugine nella Roma degli anni 50, la parabola di un femminile che, declinato apparentemente all’opposto, non trova risposte ai propri sogni e rimane vittima di un mondo (maschile) che non fa che sfruttarlo.

Cesira (Franca Valeri) è la cugina milanese, bruttina ma indipendente, di Agnese (Sofia Loren) bella meridionale, incapace di trovare un lavoro onesto. Il film segue le loro vicende nel rapporto con gli uomini, fermi nei propri vizi e difetti come siluette di nessuna sostanza, ricalcanti altrettanti tipi umani: un ladruncolo mammone (Alberto Sordi), un superficiale fotografo rimbambito, più che conquistato, dalla procacità di Agnese (Peppino De Filippo), un poeta squattrinato, approfittatore e impenitente (Vittorio De Sica), e infine il bello e prestante atleta del rispetto che cade nella trappola più comune pur di concupire l’ingenua bellezza (Raf Vallone).