La voce della Luna di F. Fellini, 122 min., colore, Italia/Francia 1990.
Ultimo dei film di Fellini, La voce della Luna ha un’indubbia valenza testamentaria e costituisce quasi un borbottio amaro, disincantato ancorché onirico, contro il mondo attuale: «Il più sconsolato film di Fellini, […] un desolato commento sulla volgarità e l’abominio del tempo presente»[1].
Il film, liberamente tratto dal romanzo di Cavazzoni, Il poema dei lunatici, di cui costituisce una sorta di prosieguo, se non di epilogo, narra le vicende di Ivo Salvini, del prefetto Gonnella e degli altri matti di un’immaginaria città del centro Italia.
Matti, lunatici, pastori erranti in cerca della verità, animati da una profonda ansia esistenziale, alla ricerca della Luna. O dell’amore. O del senso ultimo della vita: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo? Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa si vuole da noi? Cosa ci hanno fatto nascere a fare?», grida Onelio, in faccia alla Luna. I matti: i soli filosofi di una società folle. In effetti, sembra proprio che sia il lumino del folle di Nietzsche il vero filo conduttore del film.
Perché è un film che sembra non avere una trama. Grottesco, surreale, frammentario. Per molti versi incommentabile: la critica lo ha accolto con freddezza, nel ’90, se non con disprezzo. Lascia storditi, ancora oggi. Senza parole. Incomprensibile, quasi. Per fortuna.
Per fortuna, per una volta, non si ha nulla da dire. Non si sa che dire. E già questo è il segno del genio di Fellini: finalmente, un film che mette a tacere il banalissimo scambio di opinioni. Un film indecifrabile, assolutamente inutile, inutilizzabile anche per il colto cianciare pieno di buoni propositi del soggetto nomade contemporaneo – o dell’ultimo uomo – che non ha orecchi abbastanza fini, direbbe il buon Nietzsche. Ecco: un film, finalmente, da ascoltare. Un film autistico. Un film muto. Geisterphilosophie.
Ultimo dei film di Fellini, La voce della Luna ha un’indubbia valenza testamentaria e costituisce quasi un borbottio amaro, disincantato ancorché onirico, contro il mondo attuale: «Il più sconsolato film di Fellini, […] un desolato commento sulla volgarità e l’abominio del tempo presente»[1].
Il film, liberamente tratto dal romanzo di Cavazzoni, Il poema dei lunatici, di cui costituisce una sorta di prosieguo, se non di epilogo, narra le vicende di Ivo Salvini, del prefetto Gonnella e degli altri matti di un’immaginaria città del centro Italia.
Matti, lunatici, pastori erranti in cerca della verità, animati da una profonda ansia esistenziale, alla ricerca della Luna. O dell’amore. O del senso ultimo della vita: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo? Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa si vuole da noi? Cosa ci hanno fatto nascere a fare?», grida Onelio, in faccia alla Luna. I matti: i soli filosofi di una società folle. In effetti, sembra proprio che sia il lumino del folle di Nietzsche il vero filo conduttore del film.
Perché è un film che sembra non avere una trama. Grottesco, surreale, frammentario. Per molti versi incommentabile: la critica lo ha accolto con freddezza, nel ’90, se non con disprezzo. Lascia storditi, ancora oggi. Senza parole. Incomprensibile, quasi. Per fortuna.
Per fortuna, per una volta, non si ha nulla da dire. Non si sa che dire. E già questo è il segno del genio di Fellini: finalmente, un film che mette a tacere il banalissimo scambio di opinioni. Un film indecifrabile, assolutamente inutile, inutilizzabile anche per il colto cianciare pieno di buoni propositi del soggetto nomade contemporaneo – o dell’ultimo uomo – che non ha orecchi abbastanza fini, direbbe il buon Nietzsche. Ecco: un film, finalmente, da ascoltare. Un film autistico. Un film muto. Geisterphilosophie.