mercoledì 29 giugno 2011

La voce della luna

La voce della Luna di F. Fellini, 122 min., colore, Italia/Francia 1990.

Ultimo dei film di Fellini, La voce della Luna ha un’indubbia valenza testamentaria e costituisce quasi un borbottio amaro, disincantato ancorché onirico, contro il mondo attuale: «Il più sconsolato film di Fellini, […] un desolato commento sulla volgarità e l’abominio del tempo presente»[1].
Il film, liberamente tratto dal romanzo di Cavazzoni, Il poema dei lunatici, di cui costituisce una sorta di prosieguo, se non di epilogo, narra le vicende di Ivo Salvini, del prefetto Gonnella e degli altri matti di un’immaginaria città del centro Italia.
Matti, lunatici, pastori erranti in cerca della verità, animati da una profonda ansia esistenziale, alla ricerca della Luna. O dell’amore. O del senso ultimo della vita: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo? Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa si vuole da noi? Cosa ci hanno fatto nascere a fare?», grida Onelio, in faccia alla Luna. I matti: i soli filosofi di una società folle. In effetti, sembra proprio che sia il lumino del folle di Nietzsche il vero filo conduttore del film.
Perché è un film che sembra non avere una trama. Grottesco, surreale, frammentario. Per molti versi incommentabile: la critica lo ha accolto con freddezza, nel ’90, se non con disprezzo. Lascia storditi, ancora oggi. Senza parole. Incomprensibile, quasi. Per fortuna.
Per fortuna, per una volta, non si ha nulla da dire. Non si sa che dire. E già questo è il segno del genio di Fellini: finalmente, un film che mette a tacere il banalissimo scambio di opinioni. Un film indecifrabile, assolutamente inutile, inutilizzabile anche per il colto cianciare pieno di buoni propositi del soggetto nomade contemporaneo – o dell’ultimo uomo – che non ha orecchi abbastanza fini, direbbe il buon Nietzsche. Ecco: un film, finalmente, da ascoltare. Un film autistico. Un film muto. Geisterphilosophie.


martedì 7 giugno 2011

Una pura formalità


Una pura formalità, di G. Tornatore, colore, 108 min., Italia/Francia 1994.


Da che prospettiva si pensano la non-morte e la non-vita? I non-morti-non-vivi riescono a guardarsi nello specchio (s)poetizzante delle immagini in sequenza e a sperimentare la possibilità di dire di sé come se fossero altro da ciò che pensano di sé, come se fossero acqua senza scopo, vibrazione senza energia, organo senza organismo?
Non estinguendo l’ipoteca del paradosso, ma rendendo al contrario ben visibile l’ubriachezza della ragione, che tenta sempre di raccogliere il suo resto, i suoi avanzi, le briciole di imponderabile che rischia ogni volta di disseminare lungo il terreno ventoso della follia, è possibile dire dell’inimmaginabile rendendolo teorema che sa di favola?
Proviamo a reimmergerci attraverso la scrittura nell’atmosfera sospesa, pesante d’acqua e desiderio, di Una pura formalità, che, dipingendo e riempiendo la dimensione puntuale tra vita e morte, sposta il baricentro dello spettacolo un po’ più in là della linea di equilibrio della vita, avvicina al margine dell’involucro corporeo che organizza le sensazioni e le funzioni vitali, porge l’orecchio in direzione del silenzio e giocando di strabismo ed amnesia, sembra voler alleggerire il peso delle assenze che il/la non-morto/a-non-vivo/a coltiva nelle stanze invisibili della sua solitudine, destinate a rimanere spoglie, risonanti di echi confusi, troppo grandi per essere riempite.
Nell’ambito del ciclo di proiezioni del laboratorio cinematografico della Geisterphilosophie, Una pura formalità è uno sguardo, forse il più decentrato finora, sulla non-vita che si racconta e si ricostruisce da una prospettiva insolita, situata tra la non-vita e la non-morte, in un luogo che non è uno spazio, bensì un punto. L’avamposto galleggiante dei Carabinieri in cui si imbatte confuso ed impaurito Onoff, non è, infatti, imprigionato nella luce tragica caravaggesca che illuminando allarga lo sguardo, lo spazio vitale, il tempo dei corpi intrecciati che abitano il Limbo cristiano-dantesco o l’hamistagan zoroastriano. L’avamposto di frontiera pietroso e gocciolante sembra invece illuminato ad intermittenza solo dal ricordo recuperato, dalla parola liberata dal silenzio, dal fluire sanguigno del vino in vene sottili di cristallo, dalla trappola nascosta del nutrimento solo corporeo della vita. Luce non luce, che al bianco onnicomprensivo della verità, sostituisce la parzialità poetica di certi colori, le ombre delle tonalità visibili e sonanti della vita immaginata e della non vita recitata, le sfumature cupe e sensuali dell’interiorità, che sanno di carne, paura e corpo desiderato (come) proprio.