mercoledì 29 giugno 2011

La voce della luna

La voce della Luna di F. Fellini, 122 min., colore, Italia/Francia 1990.

Ultimo dei film di Fellini, La voce della Luna ha un’indubbia valenza testamentaria e costituisce quasi un borbottio amaro, disincantato ancorché onirico, contro il mondo attuale: «Il più sconsolato film di Fellini, […] un desolato commento sulla volgarità e l’abominio del tempo presente»[1].
Il film, liberamente tratto dal romanzo di Cavazzoni, Il poema dei lunatici, di cui costituisce una sorta di prosieguo, se non di epilogo, narra le vicende di Ivo Salvini, del prefetto Gonnella e degli altri matti di un’immaginaria città del centro Italia.
Matti, lunatici, pastori erranti in cerca della verità, animati da una profonda ansia esistenziale, alla ricerca della Luna. O dell’amore. O del senso ultimo della vita: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo? Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa si vuole da noi? Cosa ci hanno fatto nascere a fare?», grida Onelio, in faccia alla Luna. I matti: i soli filosofi di una società folle. In effetti, sembra proprio che sia il lumino del folle di Nietzsche il vero filo conduttore del film.
Perché è un film che sembra non avere una trama. Grottesco, surreale, frammentario. Per molti versi incommentabile: la critica lo ha accolto con freddezza, nel ’90, se non con disprezzo. Lascia storditi, ancora oggi. Senza parole. Incomprensibile, quasi. Per fortuna.
Per fortuna, per una volta, non si ha nulla da dire. Non si sa che dire. E già questo è il segno del genio di Fellini: finalmente, un film che mette a tacere il banalissimo scambio di opinioni. Un film indecifrabile, assolutamente inutile, inutilizzabile anche per il colto cianciare pieno di buoni propositi del soggetto nomade contemporaneo – o dell’ultimo uomo – che non ha orecchi abbastanza fini, direbbe il buon Nietzsche. Ecco: un film, finalmente, da ascoltare. Un film autistico. Un film muto. Geisterphilosophie.




I fantasmi del postmoderno.

Illustrazione di Milo Manara
In verità, più che costituire il “desolato commento” di un vecchio artista incapace di adeguarsi all’innovazione e ai cambiamenti della società, La voce della Luna mostra l’estrema lucidità con la quale Fellini riesce a cogliere i problemi cruciali del postmoderno, più e meglio di molti attualissimi analisti. Sconcerta, quasi, la puntualità dell’analisi felliniana, al limite della preveggenza. Certo, una tale puntualità è possibile solo perché quella di Fellini non è un’analisi – ciò a cui appunto sfugge di continuo il suo oggetto per il semplice fatto che lo pone come oggetto, che uccide vivisezionando ciò che pretende conoscere vivo.
In qualche modo, Fellini mette in scena qui la tragedia del soggetto postmoderno. Il film, si potrebbe dire, è una decostruzione postmoderna della società contemporanea (postmoderna). Come sottolinea Silvia Carlorosi, «il film presenta un’ideologia “neoromantica”, in quanto vera e propria mise-en-scène del romanticismo, contestualizzato criticamente nella società contemporanea e posto come soluzione all’alienazione postmoderna, di cui Ivo rappresenta il nuovo eroe. La risposta del regista, inoltre, è problematicizzata dal fatto che, nel criticare la società contemporanea postmoderna, allo stesso tempo utilizza consapevolmente i mezzi e una poetica cinematografica sempre postmoderna, fatta di immagini frammentate e di epifanie improvvise: la sua poetica cinematografica diviene mezzo ed espressione della sua critica, ma allo stesso tempo ne è il prodotto effettivo poiché ne utilizza gli stessi termini. Questa poetica neoromantica rappresenta la complicata risposta ideologica di Fellini alle contraddizioni insite nella società contemporanea»[2].
Ma a questo punto siamo ancora su un piano di lettura abbastanza superficiale: Fellini non oppone conservativamente il “neoromanticismo” di stampo leopardiano al postmodernismo della società contemporanea. Né utilizza un impianto postmodernista per decostruirlo. Fellini mette in scena il travaglio stesso del soggetto. Diviso tra afflato romantico e società macchinica. Diviso tra Tradizione/Natura e imperativo a godere. Diviso tra l’impianto soffocante del Ge-stell e definitiva scomparsa del grande Altro (morte di Dio).
Žižek scrive, a proposito della scomparsa del grande Altro[3]: «Il risultato paradossale della mutazione nella non-esistenza del grande Altro – del crescente collasso dell’efficacia simbolica – coincide […] con una proliferazione di diverse versioni di un grande Altro che esiste davvero, nel Reale, e non soltanto come una finzione simbolica. La credenza nel grande Altro che esiste nel Reale è, ovviamente, la più succinta definizione della paranoia: per questa ragione […] il soggetto contemporaneo tipico è colui che, mentre dimostra sfiducia cinica nei confronti di ogni ideologia pubblica, si sofferma al tempo stesso senza esitazione a fantasticare in modo paranoico, a proposito di cospirazioni, minacce e forme eccessive di godimento dell’Altro. La sfiducia nel grande Altro (l’ordine delle finzioni simboliche), il rifiuto del soggetto di “prenderlo sul serio”, si basa sulla credenza che ci sia un “Altro dell’Altro”, sulla convinzione che un agente segreto, invisibile e onnipotente stia in realtà “muovendo i fili”, mandando avanti la baracca: dietro il Potere pubblico, visibile, esiste un’altra struttura di potere oscena e invisibile»[4].
Ivo Salvini (Benigni), in questa continua ricerca – quasi spasmodica – del mondo vero, è attratto dai luoghi più inusitati: cerca sotto al letto, sulla scala, sui tetti. Vorrebbe scendere negli inferi cunicoli della metropoli. Vuole un luogo d’accesso privilegiato al dietro le quinte del gran teatro del mondo: crede di trovarlo, in una delle prime scene, in un buco nella tettoia del cimitero. Da lì, pensa, potrà accedere ad una visione pura del mondo. Sennonché, sbucando di lì, non vede che il firmamento notturno – l’illusione cosmica per eccellenza: la realtà è un labirinto senza uscite. Ogni apparente falla dell’impianto scenico non è che parte dell’impianto.
Vien subito fatto di pensare a un film come The Truman’s Show: qui il protagonista acquisisce a poco a poco consapevolezza della grande macchinazione, del complotto che lo tiene legato all’illusione. Salvini, al contrario, parte dalla consapevolezza del complotto, per veder frustrata perennemente la sua ricerca del vero. Se si vuole, The Truman’s Show (e tutto il filone complottista alla Matrix, alla X-Files, alla Magnolia) è tutto sommato rassicurante: sotto questo aspetto, è funzionale ad un’ideologia del postmoderno, che acquieta, nell’ipotesi di un complotto fantascientifico, la fame di giustizia, per sfruttare commercialmente il vuoto esistenziale che inquieta al fondo questo soggetto assoggettato al gioco (e al giogo) cibernetico del capitalismo globale. (Il problema di ogni complottismo è sempre lo stesso: qualunque ipotesi del genere, per quanto assurda, si tratti degli alieni o di una rete di potere facente capo ad una setta massonica, è sempre troppo corta, è sempre troppo poco complottista. In fondo ogni complottismo è sempre un’immagine pacificata del mondo.) I film alla Truman’s Show suggeriscono un ammiccamento: “ecco, ora anche tu sai che è tutta una finzione, quindi puoi finalmente liberarti dall’illusione e cominciare a godere consapevolmente”. “Sii te stesso” – non è forse questo l’imperativo categorico del sistema pubblicitario? A questa morale da ultimo uomo si dovrebbe opporre, da sinistra, un invito del tutto diverso, à la Nietzsche: non essere mai solo te stesso, non appiattirti su di te, vivi al di sopra di te – tramonta.
I tipi felliniani presentati in La voce della Luna rispondono perfettamente a questa lettura lacaniana: il prefetto Gonnella è il tipico paranoico, che vede ovunque un immane complotto; Sim, il musicista abitatore di loculi cimiteriali, fugge dall’inganno ancestrale della musica del mondo e cerca rifugio nel mondo dei morti, per proteggersi dal complotto dei fantasmi di cui è vittima. Paranoico è il gesto di Onelio, che vede nella Luna l’oscena custode dei segreti del mondo, il catalizzatore insensato del senso del cosmo.
Tuttavia Fellini non cede alla lettura rassicurante alla Matrix. Non è affatto un trasognato nostalgico dell’organicità perduta della Natura (tensione “neoromantica”) contrario all’incedere della società contemporanea, fluida e modulare, insensata (“postmodernismo”). Addirittura si potrebbe ribaltare questa lettura, mostrando come la vera critica di Fellini alla società postmoderna sia di voler inseguire a tutti i costi l’illusione di organicità del mondo.
Il problema vero è che hanno ragione i matti: il cinismo del mondo ragionevole è in fin dei conti la paranoia dell’impotente – è il cinismo dell’ultimo uomo che tutto rimpicciolisce, che tutto vuole e crede alla portata della sua mano. La paradossalità di una schiera di anime belle davanti alle telecamere a celebrare la conquista della luna, con i fotografi che si avvicinano intimoriti e fuggono subito dopo aver fatto lo scatto, con i politici che fanno dell’evento subito un motivetto di partito e con il vescovo che risponde alla domanda del giornalista dichiarando che non ha nulla da chiedere alla luna perché «tutto è già stato rivelato» – l’assurdità di tutta questa scena clou mette in risalto la vuotezza del cinismo condiviso. L’assurdità, cioè, di credere che davvero si possa acchiappare la luna (davvero esista nel reale un Altro dell’Altro): l’appiattimento del mondo sul reale.
Illustrazione di Milo Manara
Viceversa, ed è questo l’aspetto più inquietante del film, i matti hanno quasi sempre ragione: non solo hanno ragione di porsi delle domande o di dubitare di questo o quello, ma sono proprio gli unici portatori di ragione, a fronte della totale irrazionalità e irragionevolezza del mondo “ragionevole”. La loro risposta autistica – folle – è la sola risposta sensata alla follia del mondo che li circonda. Nel discorso di Ivo: «Quando c’era un silenzio sospeso come questo, è in un silenzio così che arrivano gli schiamazzi di quegli uccelli, quei fischi, quei rintocchi di campane e sento delle parole che mi sembra di capire ma che non capisco… Sono così veloci, incalzanti… afferro solo qualche sillaba: “perciò”, “comunque”, ecco, una volta hanno detto molto chiaro “quindi”. […] Ma ci pensi… vivere finalmente liberi, liberi nel cuore, ed è così semplice, è qualcosa che ci appartiene da sempre. Mi viene da piangere a vedere che invece è ancora tutto così nel buio, così lontano, vedo solo offese, ingiustizie. Per esempio l’Aldina! Dov’è l’Aldina? È giustizia questa, sì? Questo è il progresso? Così devono continuare le cose, per sempre senza riuscire mai a credere a una voce amica, niente di fermo, di sicuro. Allora mi dico forse vogliono aiutarci, ma non sanno con chi parlare, scelgono a caso, si confondono. Io debbo capire…» – in questo discorso non c’è in fondo che una ragionevolissima e umanissima richiesta di giustizia: “le cose non sono mai quelle che promettono di essere”; “ogni apparenza è ingannevole” e così via. «Io debbo capire…» non è che la richiesta di intelligibilità del mondo – un mondo di per sé privo di razionalità, privo di giustizia e di logica. Non a caso, tutto ciò che Ivo riesce a percepire dei discorsi confusi di questi uccelli e fischi e rintocchi di campane è un insieme di brandelli di un discorso logico: anzi sono solo congiunzioni logiche: “perciò”, “comunque”, “quindi”. Non vi è alcun contenuto: ciò che manca al mondo, ciò che “ci vogliono dire” quelli di sotto, è semplicemente la logica del mondo – il senso del mondo. Ciò che è appunto fuggito via dal mondo incoerente e consumistico dell’usa e getta, della TV locale (oggi possiamo ben dire della webcam privata) e delle varie gnoccate più o meno provinciali, cafone, ridicole, vuote (dal festival di Sanremo a Miss Italia, per non parlare dei reality show – è tutto sempre una grande caciara provincialissima, una grande Gnoccata, appunto). È giustizia, questa?
Ecco, quindi, che geisterfilosoficamente si rovescia il mondo di sotto e quello di sopra: attraverso la follia del visionario scorgiamo la follia del mondo, e udiamo fantasmi. La voce della Luna è a tutti gli effetti un film di fantasmi: di visionari che raccolgono – cercano di raccogliere – la testimonianza dei fantasmi; e di vite ridotte a fantasmi di vita. Tutto è sogno, visione, follia. La Geisterphilosophie deve dunque abbandonare definitivamente il terreno dell’analisi e spingersi all’evocazione dei fantasmi. E in questo film ce ne sono.


Il fantasma di Berlusconi.

Berlusconi, in primo luogo.
«Il livello artistico dei film di Fellini è fuori discussione ed è comprensibile la denuncia dell’assoluta illegittimità di qualunque modificazione del ritmo narrativo delle opere universalmente riconosciute come capolavori ma è anche vero che in questi ultimi tempi si è verificata da parte dei telespettatori una vera e propria assuefazione al fenomeno degli intervalli»[5]. Questa fu la sentenza del 1985 sulla querelle Fellini-Berlusconi: il diritto d’autore è leso, di fatto, dagli intervalli pubblicitari che privano l’opera della sua integrità – ma dal momento che manca ogni legislatura in materia...
In realtà, quello che all’epoca sembrava solo un cavillo giuridico o la presa di posizione di un vecchio artista, si rivela, a riguardare oggi la vicenda, un passaggio chiave dell’intera vita culturale (e politica) italiana. L’assenza di legge in materia (come l’assenza di una legge adeguata sulle TV private e come l’assenza di una legge sul conflitto d’interessi eccetera eccetera) non pare proprio del tutto casuale: sono in gioco, in questa vicenda, due visioni del mondo radicalmente diverse o, se si vuole, due tipi antropologici radicalmente diversi.
Di seguito una testimonianza estratta da Di me cosa ne sai[6].


Se uno, poi, si mette a riguardare alcune scene dell’epoca, alcuni spot della Fininvest, alcune dichiarazioni, questo insieme di episodi, fatti e fatterelli, si compone in qualche modo in un mosaico che a vederlo a distanza fa pensare ad un disegno ben definito, molto sensato anche, per quanto eversivo[7]. Un disegno o un progetto riguardante appunto un nuovo tipo umano – come chiamarlo? Homo televidens? Un progetto di videocrazia, appunto, che coniuga anarco-liberismo individualista, propaganda fascista ed intrattenimento mediatico. Episodi, fatti, fatterelli che sono lì a dire qualcosa, a suggerire di un disegno più complesso, che però necessariamente ci sfugge. Brandelli di un discorso: “perciò”, “comunque”, “quindi”… Teoria del complotto.
Questo fantasma aleggia in tutto il film. Il biennio ’89-’90 è l’apice del Milan di Berlusconi, la cui formazione campeggia sulla parete del ristorante dove si svolge la cerimonia di matrimonio (Berlusconi è disegnato sorridente sulla porta presa a calci dai camerieri). È presente alla Gnoccata, nella grettezza e cafoneria dell’imprenditore televisivo locale. È presente nel connubio grottesco tra politicante e bottegaio, capitale effimero ruotante attorno al potere vuoto del desiderio: la Gnoccata appunto, ovvero la gnocca ridotta a mercato. È il fantasma del berlusconismo, appunto, dell’Italia degli anni ’90, del populismo videocratico di questo primo decennio di 2000: infotainment e sexploitation all’italiana – leggi: Drive in, Non è la Rai, GF.

Il fantasma della donna: la voce della Luna.


Strettamente legato al fantasma di Berlusconi è l’aspetto silente dell’intero film, il lato notturno, la faccia nascosta, per così dire, della Luna. La voce della Luna, appunto. Ciò che testimonia del fantasma della donna. Il femminile silenziato e impallidito nello sfruttamento tecno-spettacolare. Tecnica e spettacolarizzazione fanno tutt’uno, nel film di Fellini (nei film di Fellini), a ridurre al silenzio quel che è appunto la voce della Luna, della quale non resta che qualche cinguettio, scampanio lontano, un disturbo nelle frequenze radio della rete planetaria. Il berlusconismo è l’aspetto appariscente e grottesco di questo fantasma originario, malinconico e romantico. Mitico, senz’altro – ma non meno efficace. Sì, mitico, è proprio questo il caso: ciò che manca, appunto, al mondo ridotto a mercato, ovvero a questo disincantamento cinico e meschino del mondo appiattito sul significante vuoto del capitale.
È questo il vero fantasma del film: ciò che parla in assenza di voce e così manifesta l’assenza di sé pur nel profluvio assordante e confuso dell’ottimismo tecnofilo dell’Italia consumistica. Un fantasma beffardo, che sembra guidare questo Leopardi/Pinocchio in un percorso iniziatico, sul tipo dell’Asino d’oro, e che però alla fine lo dileggia nell’impossibilità di cogliere alcunché anche nella voce della Luna: la Luna, infatti, alla fine parla davvero a Ivo, ma solo per dirgli che è meglio non capisca nulla, è meglio non decifrare ciò che dicono le voci – importante è l’ascolto. Ascoltare il silenzio: non riempirlo di parole, non decrittare messaggi alieni (non acchiappare la Luna). Come a dire, non disegnare il senso rassicurante di un complotto. È qui che sta tutto lo scarto tra un Fellini e i Wachowski: non c’è proprio nessun mondo dietro il mondo.
Sotto questo aspetto, Fellini è decisamente baudrillardiano: egli difende fino in fondo l’illusione primordiale e irriducibile del mondo, contro ogni decifrazione ultima di un improbabile codice sorgente o matrice, appunto[8]. Da ultimo, sarà la stessa Luna, col volto dell’amata Aldina, a rilanciare l’illusione nel simulacro annunciando la pubblicità, con ciò affermando la definitiva sconfitta, forse, del femminile, ma al contempo rilanciando il gioco effimero dell’illusione a un livello superiore, moltiplicando il labirinto magico che reingloba e reinterpreta al suo interno il mondo stesso della pubblicità e dello show.

Il fantasma del mondo.

Tutto è spettacolo. Ma lo spettacolo stesso non è che fantasma. La vera riflessione geisterphilosophich è tutta qui, nella voce del fantasma del mondo.
Si diceva che i matti hanno proprio ragione, nel film: Gonnella non ha forse ragione di affermare che i suoi vicini complottano contro di lui perché vogliono contagiarlo di vecchiaia? E non è forse vero che lo seguono e lo pedinano, come quando, nei campi di notte, incrocia il vecchio che lo saluta: “che coincidenza!”? Ma ancor più non ha ragione, forse, quando invita Ivo ad osservare i passanti?: ognuno sembra avere qualcosa da fare, l’uomo d’affari si comporta proprio come fosse un uomo d’affari, il padre e il figlio sembrano proprio un padre un figlio e così via… recitano tutti perfettamente. Sembrano proprio essere ciò che sembrano essere!
Ecco lo scarto fantasmatico per excellence. Geisterphilosophie pura: ogni cosa recita la propria parte, sembra proprio essere ciò che è, salvo sfuggire sempre a se stessa. Ogni cosa, e tanto più ogni persona recita la propria parte come fosse parte di un complotto, o di una Provvidenza, o di uno Spirito, salvo dissolversi in una vuota moltiplicazione e frammentazione di spiriti, Geister, che non sono mai ciò che sono in sé e per sé. In sé e per sé: ecco lo scarto fondamentale, pur colto dal buon Hegel. Il quale, però, lo ha subito voluto colmare – o nascondere – in un edificio sistematico che strutturasse l’abisso nel quale qui si incappa. Abisso che invece fu allargato a dismisura da Nietzsche, dinamite gettata nelle fondamenta della vecchia cittadella hegeliana (ecco: storia-lampo della filosofia moderna racchiusa in tre righe). L’esplosione dell’edificio hegeliano, questa immane pluralizzazione transfinita dello Spirito, Geist, è il tratto precipuo della filosofia novecentesca, ovvero un immane frantumazione archeologica sulla quale si muove la Geisterphilosophie.
La voce della Luna è, ante litteram, una tale Geisterphilosophie. La felliniana proiezione fantasmatica mette in gioco, per così dire, questa sorta di quadrivio dialettico tipico della Geisterphilosophie per cui non si dà opposizione piana tra realtà e apparenza, o, se si vuole, tra in sé e per sé, ma tra realtà/simulacro e apparenza/illusione. (A questa duplice opposizione, occorre ricordarlo, rinvia l’altra: vita/morte – non-morte/non-vita). Già qui si dà una pluralizzazione della dialettica hegeliana in un’improponibile dialettica a quattro funtori che, evidentemente, mette in crisi ogni impianto logico “piano”. Senza tener presente questa quadruplicità non si potrà nemmeno seguire veramente ciò che la proiezione fantasmatica di Fellini vuol testimoniare: si rimarrebbe infatti irretiti in una facile analitica della realtà e dell’apparenza, per cui non si capirebbe nemmeno cosa Fellini avrebbe da rinfacciare alla TV di Berlusconi. Lo stesso irretimento che si riscontra nella faciloneria di certe analisi pseudo-sociologiche sul fenomeno della realtà virtuale, della società dello spettacolo e via dicendo.
La testimonianza che l’evocazione geisterphilosophich permette di cogliere nei fantasmi di Fellini riguarda proprio questo scarto irriducibile tra l’illusione originaria (o fantasma del mondo) e la simulazione totale: non si tratta qui di criticare l’illusorietà della società dello spettacolo (la Gnoccata) a fronte di un’improbabile Tradizione/Natura. Piuttosto, il fantasma notturno (la voce della Luna) testimonia dell’illusione fondamentale, il sogno, la faccia nascosta del mondo, silenziato (e mutilato) nell’appiattimento del reale su se stesso – simulazione: tempo reale, realtà virtuale, reality show. Il vero “complotto” è questo essere nient’altro che ciò che si è delle cose messe in vetrina, nella grande vetrina alla quale il mondo è stato appiattito (globalizzato). Il complotto berlusconista non è altro che questo appiattimento da ultimo uomo del mondo rimpicciolito nella tecnica e nella simulazione di sé: il cinismo perverso e impotente che dice “sì, voglio solo la gnocca, e perché non dovrei?”. (Ricordate gli adoratori dell’asino che diceva sempre “Ja”?). L’ultimo uomo salterella nano e goffo su un pianetucolo ridotto a una stazza minima. L’ultimo uomo strizza l’occhio e dice “vogliamo una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte”. L’ultimo uomo vuole veleno per obliare la morte. L’ultimo uomo guarda la luna e pensa di poterla prendere allungando la mano.
Per fortuna, direbbe Baudrillard, il mondo non è mai stato reale. Per fortuna la Luna non parla, non ha nulla da rivelare. Per fortuna la Luna sarà sempre distante. Per fortuna dal sogno – dall’illusione del mondo – non si esce. Per fortuna nulla è mai ciò che è fino in fondo – in sé e per sé. Anche quando la Luna annuncia beffarda: “pubblicità!”.
Si può riempire il mondo di monnezza, di reale, di parole, di significati. Si può ridurre il mondo a nient’altro che ciò che è e che dice di essere. Ma per fortuna, ci sono notti, “silenzi come questi”, in cui chi ha orecchi fini può ancora sentire scampanii e cinguettii, sentire la voce della Luna.
Sentire fantasmi. E silenzio.

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[1] http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=27935
[2] S. Calorosi, Neoromanticismo in risposta al postmodernismo? L’influenza leopardiana nella poetica felliniana di La voce della Luna, in “F/L - Film e Letteratura. Rivista di cinema e letteratura”, 4 (http://www.almapress.unibo.it/fl/numeri/numero4/libri/voce_luna.htm).
[3] Il grande Altro è un’espressione di origine lacaniana che indica l’apparato simbolico sul quale si regge la società: un giudice, ancorché corrotto, meschino, etc., nel momento in cui indossa la toga è espressione diretta della Legge. Tanto per fare un esempio che utilizza di frequente lo stesso Žižek.
[4] S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, ed. it. a cura di D. Cantone e L. Chiesa, Cortina, Milano 2003, p. 459.
[5] Cit. in Fellini non ferma Berlusconi. Ma sugli spot serve una legge, «La Repubblica» 1/8/1985 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/01/fellini-non-ferma-berlusconi-ma-sugli-spot.html)
[6] V. Jalongo, Di me cosa ne sai, 78 min, colore, Italia 2009.
[7] Per raccogliere alcune di queste tessere bisogna avere solo un po’ di pazienza e navigare su internet (o negli archivi della RAI, in emeroteca e in biblioteca, se si vuole approfondire). Un lavoro del genere è stato svolto dal già citato film-documentario di Jalongo, nonché da quello di E. Gandini, Videocracy, 85 min, colore, Svezia 2009. In generale, però, è bene riguardare alcune tessere di prima mano – le fonti! Alcune di queste potrebbero essere lo spot della Fininvest contro la “chiusura” delle reti private del ‘90: http://www.youtube.com/watch?v=dDzv-KhwTwU, o alcuni episodi di protesta dell’84 a seguito della sentenza di incostituzionalità della gestione privata della televisione nazionale (cfr. questo TG3 dell’84: http://www.youtube.com/watch?v=Z3U8eX82Oh4&feature=related), come quelli che circolano su Youtube sotto il titolo di “I giorni che oscurarono Canale5” (http://www.youtube.com/watch?v=O1AEGsx7Tas&NR=1).
[8] Su questo punto può essere illuminante quanto afferma Baudrillard in Decodificare Matrix (intervista di Aude Lancelin), contenuto in J. Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis, Milano-Udine 2010.

Diego Rossi

 

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