mercoledì 23 febbraio 2011

Suspense


Suspense (titolo originale: The Innocents), di J. Clayton, 100 min., b/n, GB 1961. 

Suspense di J. Clayton ci inserisce a pieno regime nell’analisi del fantasma. Le considerazioni riportate sono date in ordine sparso e provenienti dai vari partecipanti al laboratorio cinematografico. I titoli, nel libro “Giro di vite” in riferimento allo svolgimento iperbolico della trama, all’accumularsi di piani di lettura, al vertiginoso approdo alla scena madre finale che vede coinvolti la giovane signorina Giddens ed il bambino del quale deve prendersi cura.

sabato 12 febbraio 2011

Fantasmi a Roma


Fantasmi a Roma, di A. Pietrangeli, colore, 100 min., Italia 1961.

Fantasmi italiani.

Gassman, Mastroianni e Buazzelli in una scena del film
Santi (non proprio santi), artisti e donnaioli - ecco l'Italia. Non è difficile riconoscere in questa classica (?) commedia di Pietrangeli un divertito ed elegante affresco di quell'intreccio costitutivamente italiano tra clero e nobiltà con l'aggiunta dell'artista/borghese/intellettuale. Ma si tratta, in verità, della buona vecchia Italia, più che dell'Italia degli intrecci e delle macchinazioni politiche, di quell'Italia che arranca, con un pizzico di orgoglio e tanta autoironia, per sopravvivere al travolgente boom economico degli anni '60.
Paese che vai, fantasmi che trovi, verrebbe da pensare: qui siamo di fronte ad un tipo di fantasmi del tutto diverso da quelli di Shining, per quanto, in qualche modo, entrambi i film riprendono quel che accade in una "casa infestata". Ma c'è un oceano di distanza: qui non c'è proprio nulla che spaventi, non c'è nulla che inquieti, se non forse il timore per il futuro, per la perdita di quell'Italia calpestata dalle ruspe del progresso, messa a tacere dai fragori degli "anni ruggenti" e dall'americanizzazione. Certo, c'è una differenza nei toni ovvia: il film di Kubrick è un horror d'autore - Fantasmi a Roma è una commedia d'autore. Tuttavia la bonarietà di questi fantasmi nostrani non si esaurisce in una semplice scelta registica o in un diverso target.

venerdì 4 febbraio 2011

The Shining - Come interpellare il fantasma?


Una breve nota geisterphilosophich su The Shining. Con questa proiezione siamo ormai calati decisamente, e forse improvvisamente, nello spettrale regno del fantasma. Qui tutto si rarefà, si indistingue e si confonde. Forse si rovescia. Probabilmente, orientarsi risulta stranamente più difficile che non con quei non-morti cadaverici finora incontrati: Frankenstein, Dracula, gli zombie. E certamente sembrava quanto mai scontato evocare i fantasmi di questi cadaverici undead onde ascoltarne la testimonianza. Qualcosa cui chi segue questo laboratorio si è ormai abituato. Qui, con Shining, il meccanismo d'evocazione sembra d'improvviso incepparsi. Il fantasma sfugge dalle mani, non ha materia cui aggrapparsi, apparentemente - inesiste, ecco tutto. Non ha ombre da proiettare che si possano quindi far valere nell'interpellazione geisterphilosophich. In Dracula si può scorgere, nella proiezione cinematografica, una proiezione di fantasma, anzi una vera e propria fantasmagoria: il rimosso del sesso, dell'amore, della società, della vita stessa, del potere. Altrettanti fantasmi che l'ombra (animata) del vampiro più famoso della storia proietta in visioni eteriche e sublimi.
Con Shining, lo schema d'improvviso salta. Del resto Kubrick è una presenza ingombrante: nel cinema d'autore risulta molto più difficile far emergere fantasmi, poiché lo fa già l'autore. Allora sembra - sembra - che il meccanismo s'inceppi. Ma ecco, appunto, s'inceppa solo ciò che è un meccanismo. Voglio dire, senza mezzi termini: la Geisterphilosophie non si profonde in un semplice gioco di smascheramento o di ribaltamento, e in generale non adopera meccanismi o schemi interpretativi. La Geisterphilosophie, piuttosto, offre rituali d'evocazione fantasmatica. Che i fantasmi proposti nel film di Kubrick siano i fantasmi di Kubrick non toglie di fatto nulla all'evocazione: si interpellino i fantasmi di Kubrick. Non si tratta di interrogare e rivelar metafore: "il fantasma è: metafora della vita familiare", "il fantasma è: metafora delle paure inconscie" e così via. Nell'interpellazione geisterphilosophich non vi sono imbarazzi: entriamo piuttosto in uno spazio fantasmatico esso stesso, d'auscultazione, per così dire.
Sicché, in primo luogo, vorrei indicare la chiave geisterphilosophich per entrare in questo spazio rituale: il fantasma stesso sfugge ad ogni logica di interrogazione teoretica - e dunque sfugge ad ogni metaforizzazione - per il semplice fatto che è impalpabile. Ma, a rigor di logica, non cambia nulla rispetto ad altri non-morti. Abbiamo qui come lì a che fare col fantasma di un fantasma. Anzi, nel caso dell'Overlook Hotel di Kubrick, con fantasmi di fantasmi. La pluralizzazione introduce ad una perfetta Geisterphilosophie.
Ancora una volta va ribadito: il fantasma in sé non ha nulla da dire. Il fantasma in sé inesiste, e in quanto tale la sua visione non è che proiezione. Ma quella proiezione è per l'appunto un fantasma: fantasma di fantasma. Il fantasma in sé inesiste come inesiste ogni presenza. Il report di Gianfranco Irlanda e Marina Nardone sottolinea con giusta forza la preponderanza dell'elemento speculare nel film di Kubrick: bisognerà notare ancora la totale specularità tra i morti e i vivi, entrambi perfettamente e semplicemente presenti sulla scena. Ecco: il mistero della presenza. Che si rovescia in un'eterna assenza. Sì, sembrerebbe che i fantasmi di Kubrick siano già interpretati come proiezioni schizoidi di una mente degenerata. Oppure freudiani fantasmi di una situazione edipica irrisolta. Pure, l'interpellazione geisterphilosophich permane: che testimoniano questi fantasmi? La vera testimonianza è che, in fondo, tali fantasmi non sono che le proiezioni di fantasmi, giacché se si nega uno statuto ontologico (come pure bisogna fare) a quei fantasmi, lo si dovrà necessariamente negare anche tutti i viventi presenti nel film: non sono forse essi stessi, già da sempre, inesistenti? Chi proietta queste immagini oniriche: Danny, Jack Torrence, il negro o Wendy? Oppure non sono piuttosto, tutti costoro, i sogni immaginifici di Grady, delle gemelline e di tutti gli altri? O sono tutti, invece, i fantasmi di Stanley Kubrick proiettati nel libro di Stephen King? E siamo noi ad assistervi come spettatori? O non siamo piuttosto noi i fantasmi di uno spettacolo onirico, al di qua di uno specchio che ci riflette in un mondo assolutamente fantasmatico?
Questa stessa chiave, con ogni probabilità, andrà tenuta presente ogni qual volta si tratterà di interpellare fantasmi. Ciò che mi premeva sottolineare in questa sede.

Diego Rossi

Shining


Shining, di S. Kubrick, colore, 146 min., USA 1980

"È lei il custode dell'albergo. È sempre stato lei..."
Delbert Grady, ex custode dell'Overlook Hotel, si esprime così nel momento in cui si rivela la sua natura fantasmatica nei confronti di Jack Torrance, interpretato da un superlativo Jack Nicholson. La luce pervade la scena, la luce di una toilette per signori dal colore rosso acceso.
E' la presenza della luce che permea le scene più inquietanti di Shining di Stanley Kubrick, film uscito nel 1980, tre anni dopo il romanzo di Stephen King cui Kubrick si è ispirato.
Shining, come già 2001: Odissea nello spazio del 1968, si presenta come la summa del genere a cui appartiene, rileggendolo però attraverso la personalissima visione del regista americano.

L’horror familiare allo specchio

Il genere è quello tradizionalmente inteso dell'orrore, ma il regista, pur inserendo quasi tutti gli stereotipi del genere riesce a reinterpretarli in maniera molto personale.
Il film narra la vicenda di un ex insegnante e scrittore in crisi che si trasferisce con la moglie, Wendy (una strepitosa Shelley Duvall) e il figlio Danny in un albergo del Colorado dove lavorerà come custode per il periodo di chiusura invernale. Un lavoro di vitale importanza per Jack che rappresenta la soluzione all’impellente necessità di guadagno e la possibilità di coniugare la sua attività di scrittore, a lungo accantonata dai fallimenti di una vita familiare e sociale.
La permanenza in un luogo chiuso, isolato, per quanto piacevole e accogliente, come deve essere un albergo, comincia ad accentuare le crepe nei rapporti umani tra i protagonisti, all'inizio apparentemente normali; vengono a galla a poco a poco tracce di una serie di avvenimenti del passato, inizia a manifestarsi l'inquietudine di un luogo che sembra avere uno spirito proprio.

martedì 1 febbraio 2011

Lasciami entrare


 Lasciami entrare (Låt den rätte komma), di T. Alfredson, colore, 114 min., Svezia 2008.


Diretto dallo svedese Tomas Alfredson, il film Lasciami entrare è stato sceneggiato da John Ajvide Lindqvist, l'autore, svedese anch'egli, dell'omonimo romanzo edito nel 2004 a cui il film è ispirato.
Il percorso cinematografico sul tema della non morte ci ha visti interessati ad indagare il legame, spesso fortissimo, che esiste tra i film che trattano di vampiri, zombie e fantasmi e le zone oscure della società in cui viviamo - ciò che più volte abbiamo chiamato “rimosso” - rendendole visibili ed analizzabili. Lasciami entrare si pone di per sé in quest'ottica e si presta tranquillamente ad un'analisi di questo tipo. Il film rispetta infatti tutti i cliché del genere “vampiri” riassorbendoli però in una visione assolutamente originale che quasi impone un' interpretazione simbolica psicologica o sociale. Non è una variazione sul tema questa, ma una profondissima riflessione sui sentimenti, i rapporti umani e la società.