Twilight di C. Hardwicke, colore, 117 min., USA 2008
Forks, Penisola di Olympia, contea di Clallam, stato di Washington. Sorta ai confini della riserva Mora e dell’area di La Push – la bouche storpiata, la bocca del fiume, quello lungo il quale si estende la zona – patria della tribù degli indiani-licantropi Quileute, dei surfisti e dei cacciatori di balene. La giovane, piovosa, nuvolosa, grigia Forks, con la sua foresta nebbiosa, i suoi alberi di cedro. Battezzata dall’intrico di fiumi che vena le sue terre e che attira pescatori di salmone e di trote arcobaleno da tutta la contea. Forks che sembra ferma nel tempo, distante, nascosta, grigio-verde è stata consacrata da Stephenie Meyer, la scrittrice statunitense che nel 2005 inizia a pubblicare i libri della Saga Twilight, come culla o forse teca del/la nuovo/a “tipo/a vampiro/a”, del/la vampiro/a moderno/a, à la page, trendy. Bello e maledetto, ribelle e solitario, un James Dean ripulito, acculturato e con lunga vita lui; classicamente americana, tendenzialmente biondo platino, un po’ pin-up, un po’ veggente per caso, lei. Parliamo dei/lle non-morti/e. Accanto a loro i/le non-vivi/e: la comunità di Forks con tutti i suoi usi e costumi; la straniera; gli indiani della riserva. Catherine Hardwicke, in Twilight, mette in immagini le vicende di alcuni clan di ultima generazione vampirica, avviando così la Saga filmica Twilight – seguiranno New Moon di Chris Weitz, 2009; Eclipse di David Slade 2010; Breaking Dawn di Bill Condon, 2011. Il modo in cui Meyer-Hardwiche raccontano di questa depotenziata e umanizzata generazione vampirica e del contesto in cui essa spende la sua non-morte eterna, è il motivo che rende interessante riflettere sul “caso cinematografico Twilight”, che sopravvive a cambi di regia e a differite spazio-temporali; che, richiede fedeltà – o meglio affiliazione – e pazienza; che invoca allo stesso tempo ribellione al sistema e fede nel sogno americano.