Intervista col vampiro (Interview with the Vampire), di N. Jordan, 118 min., USA 1994.
Intervista col vampiro. Ovvero: cronache di vampiri, come recita il sottotitolo. Un film che ha segnato indubbiamente una svolta nel cinema degli ultimi vent'anni, insieme ai romanzi di Anne Rice, che ne ha scritto la sceneggiatura e dei quali il film stesso costituisce la trasposizione cinematografica (in particolare dell'omonimo primo romanzo delle Cronache dei vampiri). Un passaggio che segna un cambiamento nell'immaginario e nella percezione collettiva degli anni '90 , di cui lo stesso Dracula di Francis Ford Coppola, di due anni prima, costituisce un momento saliente, in perfetta sintonia con quella tendenza che nell'Intervista viene esplicitata in maniera da formare quasi un canone che informerà, insieme ad un altro cult coevo, Il corvo, la cultura di un'intera generazione e che, di fatto, costituisce il terreno dal quale emergerà anche la più recente sottocultura giovanile (per intenderci, gli "emo") nonché l'attuale moda legata al vampirico (già: vampirico piuttosto che vampiro, dacché non si può parlare in questo caso di vampiri tout court).
Intervista col vampiro si dà subito come un'opera letteraria, la cui trasposizione filmica è alquanto malriuscita: si vede bene, infatti, che la regia non riesce a restituire in un linguaggio cinematografico adeguato l'apparato narrativo che non gioca né sull'intreccio, né sull'azione e che risulta infine un po' pedante, lenta, talvolta addirittura impacciata. Piuttosto il successo dei romanzi di Anne Rice si fonda quasi interamente sull'indagine psicologica e sul confronto tra diverse personalità, che il film tenta di restituire - con alterni risultati - attraverso principalmente il ricorso alla forte presenza scenica di attori di primo piano che riescono effettivamente ad interpretare in maniera paradossalmente naturale dei ruoli virtualmente impossibili per un essere umano. Il divismo stesso, quasi un'aura che avvolge le tre principali star, è fatto giocare consapevolmente al fine di restituire l'aura immaginifica dei diversi vampiri, caratterizzati per mezzo del ricorso alle caratteristiche degli stessi divi che le impersonano: avatar per mezzo dei quali i vampiri si incarnano. (Oppure si dovrebbe, già qui, far valere tutto il peso della dialettica geisterphilosophich? Non sono forse i vampiri le spoglie, la causa materiale, per mezzo di cui è messo in moto il meccanismo del divismo, vera causa finale - laddove la causa efficiente è costituita dagli autori e la causa formale dagli attori? Non è il vampiro, forse, un semplice mezzo per consentire alla star di far brillare tutto il suo divismo, tutta la sua fascinazione vampiresca?)
Anne Rice ha il grosso merito di aver svincolato l'immagine cinematografica del vampiro dalla figura ingombrante del conte Dracula («invenzione di un ubriacone irlandese», come lo liquida laconicamente Louis nel corso dell'intervista). Al suo posto l'autrice mette in piedi un'ambientazione molto equilibrata nella quale i vampiri sono creature tra le altre, pur sempre paradossali figli di Dio, predatori assetati di sangue dotati di una coscienza e di una morale. Svincolati dal facile legame con Satana (di cui il conte Dracula non è che una manifestazione, una rappresentazione o fors'anche una possibile incarnazione), essi sono destinati a vivere in un oscuro limbo, reiette creature della notte accomunate a Dio stesso nella crudeltà della natura insensata. Essi non sanno donde proviene il "dono oscuro" e non sanno neppure se sono in qualche modo "previsti" nel disegno divino della creazione. Atei pii, credenti senza dio, i vampiri di Anne Rice hanno la peculiare fortuna di unire in sé i due estremi limiti dello spettro umano - il bestiale e il divino - senza riuscire ad armonizzarli in unità organica.
Ne risulta una figura certo poliedrica, molto varia, non stereotipata (virtualmente si può immaginare una caratterizzazione infinita) ma in linea generale accomunata da un patetismo di fondo alquanto spiccato. Lungi dall'essere - necessariamente - malvagio, il vampiro di Anne Rice è sempre patetico: tuttavia bisogna intendere bene un tale patetismo, che certo a tratti disturba come un che di forzatamente lacrimoso, e far valere piuttosto il senso più genuino del termine. Il patetismo è una caratteristica costante che la stessa Anne Rice sottolinea con una certa consapevolezza ed è proprio ciò che maggiormente attrae dei suoi vampiri: patetiche creature della notte dotate di una passione sovrumana. Ecco: il pathos è tutto ciò che, nell'essenza più propria, individua il vampiro in quanto tale. Questa è la grande intuizione di Anne Rice. La passione. Come la passione di Cristo. I vampiri di Anne Rice sono cristi maledetti, destinati a portare per l'eternità il peso di una croce e a patire eternamente il fuoco di fredde passioni impossibili da colmare. Essi patiscono la propria condizione come una passione smisurata, infinita - eterna. Ciò che costituisce, da ultimo, la principale causa della loro fascinazione; ciò che li ha resi come un modello per patetici adolescenti in crisi esistenziale (e già qui siamo all'alba di Twilight).
Chiariamo allora brevemente l'ambientazione ideata dalla scrittrice, che fa da sfondo al film, come una trama che costituisce, non vista, la struttura dell'intero impianto filmico. La stessa ambientazione di un gioco di ruolo come Vampires: the Masquerade, che dai romanzi di Anne Rice è tratto. Sono bandite tutte le leggende popolari: al massimo possono essere considerate fantasie degli umani che nel corso della storia hanno avuto sporadici contatti coi vampiri. La croce, l'aglio, lo specchio e così via, sono tutte credenze. Vale il potere della luce solare - che tuttavia non uccide all'istante e brucia solo se il vampiro vi rimane immerso; vale il paletto di frassino che, se conficcato nel cuore del vampiro, lo blocca all'istante (ma non lo uccide); valgono il fuoco e la decapitazione (ma anche in questi casi, non danno luogo ad una morte certa). Inoltre - e anche questa è un'intuizione chiave della Rice - i vampiri, ancorché esseri fondamentalmente solitari come ogni predatore, temono la solitudine, si uniscono in società più o meno organizzate. Hanno delle regole, non scritte. Una gerarchia invisibile. Come i lupi in branco. Clan. Anche soltanto una "famigliola felice", come quella di Lestat, Louis e Claudia. Il gioco di ruolo propone una copiosa lista di clan, ognuno organizzato secondo proprie regole, ognuno contraddistinto da alcune peculiarità, stili di vita, poteri particolari: i Toreador, amanti dell'arte e della "bella vita", raffinati ed effeminati decadenti; i Nosferatu, reietti abitatori di fogne, umanissimi demoni deformi e spaventosi; i Malkavian, pazzi visionari, incomprensibili fanatici dell'Apocalisse; i Lasombra, i Brujah, i Tremere e coì via. (Per farsi un'idea, si può consultare la pagina web: http://www.vampiri.net/mask_5.html). Tali clan hanno tra loro particolari legami e affinità, formano reti di potere, si dividono i terreni di caccia. Ogni città, o territorio, ha il suo principe, che commina ai vampiri sfere d'influenza, numero di prede e così via. Nel Nuovo Mondo Lestat e Louis hanno ben pochi problemi, essendo l'America un'immenso territorio, privo di competizione con altri vampiri. Lestat la fa da padrone - e si deduce che ha lasciato l'Europa proprio con questo intento. Egli è uno spirito indomito, tormentato anche secondo la percezione che ne hanno i vampiri. Può permettersi di abbracciare chi vuole (nel film è sottolineato come anche per l'abbraccio vigano regole abbastanza precise: Claudia, troppo giovane, non sarebbe mai dovuta diventare un vampiro). Nel Vecchio Mondo è diverso: gli spazi sono ristretti, i vampiri devono darsi delle leggi molto rigorose, le prede devono essere ben distribuite, altrimenti i vampiri stessi finirebbero con l'uccidersi l'un l'altro. Dall'homo homini lupus alla comunità.
Lo stesso rapporto con gli umani è molto ambiguo. La figura del conte Dracula (o, in generale, del vampiro tradizionale) non contempla alcuna vera possibilità di incontro tra vampiro e umano se non in termini di reciproca distruzione (la figura di Mina nel Dracula di Coppola non fa che redimere, nella morte, il suo amante), e il desiderio ha quest'unica funzione d'essere vettore di distruzione - anche, e soprattutto, il desiderio sessuale. Con i vampiri di Anne Rice il rapporto diviene molto più complicato, ricco di sfumature, complesso: gli umani sono per i vampiri, indubbiamente, prede. Null'altro che prede. Ma il vampiro ha memoria della sua stessa umanità originaria, per quanto possa essere sbiadita dal tempo e messa a tacere dalla nuova natura. Il desiderio, inoltre, è spesso esso stesso ambiguo: desiderio di cibo (sangue), ma anche al tempo stesso desiderio sessuale inappagabile, e - ancor più significativo - struggente senso di mancanza, desiderio d'una condizione non più riguadagnabile, desiderio, cioè, di quella vita che palpita nella preda umana e dalla quale il vampiro stesso è stato per sempre bandito. E ogni vampiro reagisce a suo modo, in virtù delle sue proprie peculiarità caratteriali: vi è il vampiro che conserva - o tenta, fino all'ultimo, di conservare - la propria umanità, ed è dunque mosso a pietà nei confronti di quelle prede con le quali un tempo condivideva questo insensato spazio di mondo (il tipo Louis); vi è il vampiro che accetta pienamente la propria natura ferina e non vede negli umani che prede con le quali, all'occorrenza, divertirsi (il tipo Lestat). Ma vi sono anche sfumature molto più sottili: il vampiro può soggiogare a tal punto la volontà di un umano da renderlo addomesticata bambola di sangue (lo si vede nel caso del bambino offerto da Armand a Louis); contornarsi all'occorrenza di una schiera di "vacche", allevate nel proprio covo per avere sempre sangue fresco a disposizione; può altresì rifiutarsi di succhiare il sangue degli umani e cibarsi solo di animali, roditori, uccelli e così via, per quanto il sangue non sia per nulla sempre uguale. Infatti i vampiri hanno gusti molto particolari, sanno distinguere il sangue di una vergine o di un ragazzino da quello di una prostituta, possono anche eventualmente "insaporire" il sangue della propria vittima per mezzo di sostanze stupefacenti, liquori, spezie, o "riscaldarlo" suscitando emozioni, paure, passioni. I vampiri potrebbero anche non cibarsi affatto, ma alla lunga entrerebbero in un profondo letargo, perderebbero smalto, si assopirebbero fino a ridursi a cose. Ed in agguato c'è sempre la bestia che li alberga: un vampiro che non si ciba adeguatamente rischia di andare in "frenesia", come un tossicodipendente in crisi di astinenza, perdendo completamente il controllo di sé e rischiando di farsi scoprire e distruggere dagli esseri umani. Né troppo, né troppo poco, insomma.
Non è per nulla facile la vita di questi vampiri. Ecco donde deriva quel pathos che li rende patetici e affascinanti allo stesso tempo: eternamente in bilico tra la vita dal quale sono ricacciati e la morte ultima, il baratro nel quale rischiano sempre di sprofondarsi - l'oblio definitivo. Memoria, passione, desiderio: ecco a cosa sono ridotti i vampiri di Anne Rice, costretti per l'eternità ad adeguarsi a una storia che non appartiene loro, dal momento che essi sono ricacciati dall'esistenza. Li tiene in piedi solo la memoria di sé: di fatto, essi sono inesistenti, al pari delle cose. Cose che sentono e hanno memoria. Questi sono i vampiri.
E veniamo così all'aspetto più interessante di questa interpellazione geisterphilosophich (sì, ci siamo abituati: si tratta di evocare, anche qui, il fantasma del vampiro). Una cosa che sente: questo è il vampiro. A differenza di tutti gli altri non-morti, il vampiro è contraddistinto dal fatto che egli narra la sua storia: in Intervista col vampiro il fatto è reso esplicito, ma ritorna praticamente in tutti i film sui vampiri, a cominciare dal primo Nosferatu. (Certo, si dirà che anche il mostro di Frankenstein prende parola, ma lo fa nel senso di una rivendicazione, infatti il mostro di Frankenstein non è mai esistito prima di essere creato da Herr Victor). Il senso del tempo e delle memoria è il fulcro dell'intero film e dell'intera serie di Anne Rice: Cronache dei vampiri. I vampiri sono letteralmente tenuti in piedi dalla memoria: memoria della vita, memoria dell'amore, memoria del proprio male. Alla memoria segue la fame insaziabile che li divora. Da qui parte tutto il circolo vizioso nel quale il vampiro è tenuto in scacco. Ed è questo che lo rende il non-morto per eccellenza, a metà tra il cadaverico e il fantasmatico. In verità il vampiro è letteralmente sulla soglia tra la non-morte e la non-vita (e non tra la vita e la morte). Infatti non si può neanche dire che un vampiro sia mai realmente morto per rianimarsi in un secondo momento: un umano morto non è rianimabile dall'abbraccio di un vampiro. Ma nemmeno si può dire che sia mai realmente vissuto: Louis, lo si vede bene nel film, non sarebbe mai stato abbracciato da Lestat se non fosse già stato da sempre, in realtà, un vampiro, ovvero se non fosse già sempre morto dentro (quella fame insaziabile di vita che lo divorava già in vita e che si porterà dietro per tutta la narrazione, rendendolo "bellissimo").
Ecco allora, cos'è che tanto affascina di questi vampiri, esseri asessuati dotati di sensibilità, di una sensibilità sovrumana e patetica. Ecco di cosa testimonia il loro fantasma: in essi lo spettatore teoretico si riflette, stanco e fiacco, in ciò che più di tutto desidererebbe essere - non essere mai nato e, in secondo luogo, morire. Essere libero dall'esistenza: consumare, solo consumare, succhiare il succo della vita, osservandola dall'esterno - al cinema. (Il cinema come fenomeno di natura eminentemente vampiresca: in tutti i film sui vampiri è sottolineato il doppio legame tra il vampiro e la macchina da presa - macchina da presa: già questa è una definizione di vampiro.) Essere una cosa. Una cosa che sente. Ma una cosa: perdere i propri vincoli organici - i bisogni fisiologici, in primo luogo. Avere il pieno padroneggiamento del proprio corpo, ridotto a materiale plastico da plasmare a proprio piacimento. Pascersi del proprio stesso insostenibile pathos. Ego smisurato che soffre (giacché a una cosa che sente non è dato altro sentimento che il patire, ovvero soffrire), compiaciuto della propria insaziabile sofferenza. Ecce emo: ecco il narcisismo bieco di questa varia umanità attuale che in termini inattuali si direbbe l'ultimo uomo - quegli che tutto rimpicciolisce, ovvero riduce a sacca linfatica cui suggere la propria indiretta esistenza.
E si noti come, già con Dracula di Bram Stoker, allo spettatore venga offerto tutto in quantità estenuanti: colori forti, erotismo spinto, musiche imponenti, orrore spudorato, un'overdose che tenti di rianimare il catatonico spettatore. Alla fine, si capisce che tutto questo profluvio di emozioni non riuscirà mai a sopperire alla fame del pubblico. Così anche qui i vampiri offrono la possibilità di desiderare tutto ciò che gli spettatori vorrebbero.
I vampiri hanno tutto quello che l'ultimo uomo può desiderare: la bellezza, il potere, il fascino. Chi non vorrebbe essere abbracciato? Le scene finali del film lo sottolineano: ogni spettatore direbbe, alla fine, "ecco: prendimi, rendimi uguale a te, dammi il potere, rendimi bellissimo e dannato, come sei tu!". Ogni spettatore vive di quella fame che brucia Louis, ogni spettatore si riflette cieco in quella non-morte che lo alberga di già e di cui non s'avvede, accecato dalla bellezza vuota del proprio ego narcisistico. Narciso dimentico d'esser già scivolato nell'acqua torbida del proprio compiacimento e che ha dimenticato d'aver dimenticato e che in questo contrario della memoria vive una vita di sogno, sognando la piena realizzazione del proprio smisurato ego, ovvero anche di quei meschini sogni e desideri e vogliuzze che ogni tronfio omuncolo pieno di adolescenziale afflato esistenziale scambia per qualcosa come "vita".
Ecco: la vita, è tutto quel che manca.
Diego Rossi
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