sabato 27 aprile 2013

Spot FIAT 500 (2007)

Decostruire la pubblicità: FIAT 500 (2007)



Questo è lo spot col quale la FIAT ha tentato alcuni anni fa di rilanciare il suo marchio. Tutte le versioni hanno la stessa struttura e cambiano solo alcuni personaggi e alcune immagini. Il messaggio è sempre lo stesso. In tutti i casi, si assiste ad una scena tratta da Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore che fa da cornice allo spot vero e proprio: un ragazzino (Totò Cascio), col quale evidentemente lo spettatore è indotto ad identificarsi, entra in una sala cinematografica e guarda scorrere sullo schermo le immagini più significative del Novecento italiano: gli scioperi, le stragi, le manifestazioni e le contestazioni, i personaggi più popolari, il papa. La FIAT si impone così come un elemento imprescindibile della storia e dell’identità italiane. E certo chi potrebbe contestarglielo? Nel bene e nel male, la FIAT ha dominato la scena italiana dell’ultimo secolo, facendo valere tutto il peso politico ed economico della sua presenza.


Cionondimeno lo spot presenta aspetti quanto mai inquietanti. E appare senz’altro emblematico di una nuova generazione di pubblicità. Innanzitutto colpisce la quasi totale assenza del prodotto reclamizzato, che pure si presume – a torto – dovrebbe essere lo scopo principale di qualunque campagna pubblicitaria. Solo alla fine, inframmezzata allo slogan, compare l’immagine di un’auto, la nuova 500 si suppone, che non viene vista se non per la durata di un fotogramma, e che assomiglia più a una miniatura, stagliata sullo schermo nero, “ridotta” a marchio essa stessa, ovverosia idealizzata.

È stato giustamente osservato che «Questo cortometraggio abbandona il tradizionale linguaggio commerciale e si caratterizza per il forte impatto emotivo» (http://www.omniauto.it/magazine/3265/fiat-500-spot). Ma fare un’osservazione giusta, ovviamente, non vuol dire ancora osservare con attenzione. Qui non si tratta tanto di usare un linguaggio piuttosto che un altro. Non si tratta di “toccare” le corde del cuore per promuovere un’auto. Qui non si tratta di promuovere un’auto.

In verità, avendo abbastanza tempo a disposizione, si potrebbe dimostrare che la pubblicità non ha mai inteso promuovere prodotti, per quanto non sembri far altro che questo. È indubbio che a seguito di una campagna pubblicitaria aumentino le vendite. Questo è un dato: ma un dato non dice null’altro che l’evidenza del dato stesso. La pubblicità non fa mai altro, in verità, che promuovere – imporre – un’immagine del mondo. La pubblicità è indirizzamento del pubblico. Indottrinamento. L’aumento delle vendite ne è solo un effetto collaterale.

La novità costituita dallo spot della nuova FIAT 500 consiste nella trasparenza di questa operazione. Beninteso, si tratta pur sempre della trasparenza di un velo. Qualcosa che ha a che fare col fine erotismo d’una seduzione, più che con la pornografia. Sotto questo aspetto, lo spot è un vero capolavoro. Se in principio, il mondo delle grandi “ditte” cercava nella pubblicità il mezzo per “imprimere” il proprio marchio (imprinting è un termine tecnico che in psicologia ed in etologia indica una forma di apprendimento molto precoce che avviene nei primi momenti di vita e che, tradotto nei termini della pubblicità, indica il modo in cui il marchio si impone, attraverso i momenti “felici” della prima infanzia, nell’ossatura psichica del futuro consumatore), oggi che l’imprinting agisce automaticamente non c’è bisogno di reclamizzare nulla più se non il sistema stesso, come forma di “lubrificazione” dell’impianto capitalistico. E qui il cerchio si chiude, perché la pubblicità mostra tutta la potenza che, in effetti, è sempre stata il motore primo di questo liberismo ormai agli sgoccioli.

Sicché assistiamo ad un testo drammatico, recitato da Ricky Tognazzi, che impartisce lezioni di storia, di morale, di politica. Divide il bene dal male, assicura la gloria a chi la merita, addita i cattivi. Certo, chi avrebbe il coraggio di negare che il bene sia rappresentato da Falcone e Borsellino e che il male sia invece la strage di Capaci? Chi non identificherebbe come negativi le BR e gli eversivi in genere e come esemplari, di contro, i vari De Filippo, Hack, Totò, Sordi, Granbassi, Pertini? Chi non si identificherebbe, infine, con un bambino che sugge alle due mammelle della politica e della religione la linfa del proprio immaginario novecentesco?

Ma appunto questa ecumenica capacità del messaggio, questa catechesi qualunquista, cela in verità qualcosa di atroce.

Qualcosa di atroce nella banalità dei messaggi espressi, sottolineata dalla banalità musicale di Allevi, in un trionfo della banalità che alla fine costituisce il vero messaggio subliminale: la banalità del marchio che si autoriproduce come le cellule stesse del corpo italiota. La storia infinita della banalità di un cancro che ha bisogno della nostra vita per proliferare e che ingurgita e metabolizza tutto (perché tutto fa brodo: mafia, politica, Totò, movimenti operai, carabinieri, Madre Teresa, Papa Wojtyla, Pertini, Fellini, tutto – digerito ed appiattito nell’unidimensionalità d’un marchio) e che ricorre agli archetipi spiccioli dell’immaginario del secolo con un unico intento educativo: formare l’uomo unidimensionale e possibilmente decerebrato – il consumatore. Un consumatore ridotto frattanto a bamboccio, sclerotizzato nel ruolo di mero fruitore, spettatore passivo dinanzi allo schermo d’una storia che non gli appartiene, a bocca aperta (simbolo dell’apertura totale degli orifizi), disponibile cioè all’accoglimento indiscriminato della produzione capitalistica, ultimo anello della catena di trasformazione del mondo in materiale di scarto. Consumatore, appunto…

Diego Rossi


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