Antichrist di Lars von Trier, col, 104’ (versione cattolica), Dan, Ger, Ita, Sve, Pol, 2009.
Un film orribile: l’horror secondo Lars von Trier. Ovvero,
l’orrore cosmico ‒ puro e semplice, calato nella relazione di genere. In
verità, il film potrebbe forse essere letto sotto molti riguardi, da diversi
punti di vista ma la lettura di genere non sembra essere troppo peregrina se è
vero, come è vero, che tutto il film ruota attorno al rapporto tra marito e
moglie, in una assurda escalation d’orrore e di violenza, fino alla tragica
conclusione: il sacrificio della donna, strangolata dal marito. Orrore ‒ è bene
sottolinearlo ‒ non terrore. Certo,
il terrore abbonda, nel film, come la crudezza della violenza messa in
scena. Tanto più che si mescola alla
delicata bellezza delle immagini, all'aria di Haendel che accarezza e modula
l'amore e l'orrore, la poesia e la morte.
Il titolo del film dà, ovviamente, la chiave di lettura, che
però è volutamente nascosta dal regista. Tant’è vero che egli non ha voluto
spiegare chi (o cosa) fosse, nell’economia del film, l’Anticristo, lasciando
agli spettatori la possibilità di lanciare qualunque ipotesi. Chi è
l’Anticristo del film: la madre (Charlotte Gainsbourg)? Il padre (Willem
Dafoe)? Il piccolo figlio, che muore all’inizio del film? Troppo scontata
sarebbe una risposta di questo tipo. L’Anticristo è nella natura, la casa di
Satana. È nella donna, che da sempre rappresenta l’adoratrice di Satana. È nel
ritorno ad Eden, nel percorso di regressione dall’economia di salvezza (la
terapia psicanalitica) ad un’economia della dissoluzione. Dissoluzione come
rivelazione: apocalisse.
È misogino, dunque, questo film? Forse. È indubbiamente
misogino nella misura in cui la donna è portatrice di una verità anticristiana.
Altrimenti, è anticristiano, nella misura in cui la donna ha ragione di portare
questa verità.
L’elemento più sconcertante di questo film è che si tratta a
tutti gli effetti di un processo alle streghe, perpetrato nel tentativo di
salvare una strega e che si conclude con il rogo della strega. Ciò a dire che
il marito finisce con l’uccidere la moglie perché ha tentato fino alla fine di
non riconoscerle lo statuto di strega e di assolverla dall’accusa di
stregoneria. E perché finisce con l’ucciderla? Perché, di fatto, è
sistematicamente contraddetto. Perché, di fatto, la moglie ha sistematicamente
ragione. Perché, di fatto, si scontrano qui due paradigmi inconciliabili: o
vale il mondo luminoso della razionalità maschile (patriarcale, cristiana); o
vale quello oscuro e stregonesco femminile, l’antica sapienza matriarcale che
pone da sempre le donne a custodia della morte ‒ della nascita e della morte.
Perché, allora, gli uomini uccidono le donne? Forse è proprio
questa la domanda ultima alla quale il film conduce (la vera chiave di lettura sta in quel “ginocidio”, che è il titolo
della tesi alla quale sta lavorando la protagonista). Forse è proprio questo
che suscita tanto orrore, quando si guarda questo film: come se il ginocidio
non fosse che il sacrificio originario su cui solo è possibile costruire il
mondo luminoso e celeste del patriarcato. Come se la donna, costretta a fare da
vittima sacrificale, fosse il vero fantasma, il vero represso
dell’universalismo cristiano, che dunque necessita sempre, ritualmente, di
reinscenare il matricidio/ginocidio originario.
Diego Rossi
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