domenica 12 maggio 2013

Spot Lancia Y (2011) - Il lusso è un diritto

Decostruire la pubblicità: Lancia Y (2011)



C’era una volta la reclame. Un manifesto, un articolo, un messaggio, reclamizzavano un certo prodotto per renderne nota al pubblico l’esistenza. È questa, in fondo, la pubblicità: la diffusione pubblica di una notizia. La pubblicità era affidata a figure popolari come il pazzariello napoletano. Oppure venivano pubblicati inserti giornalistici che descrivevano accuratamente le caratteristiche del nuovo prodotto, in modo da convincere il pubblico della sua bontà e utilità. Poi si ricorse alla propaganda, invenzione del periodo fascista (pur se non invenzione fascista), consistente nell’arte di convincere, attraverso la comunicazione pubblica, intere masse. Manipolarne la psicologia – la psicologia di massa, come si prese a dire. La propaganda cominciò a sfruttare le tecniche della pubblicità a fini politici, inserendo però, nella stessa pubblicità, caratteristiche nuove, divenute poi tipiche della pubblicità commerciale come la conosciamo. Il messaggio, in primo luogo, che venne via via semplificandosi. La ricerca del controllo. L’imperativo diretto. Lo slogan. «I want you for the US Army».

Oggi l’apparato di controllo e la normalizzazione politica si stanno esternalizzando sempre più, demandate alle tecnologie dell’informazione e alla rete, in primo luogo: FB, You Tube, Google, sono altrettante banche dati che al contempo normalizzano le masse su uno standard ritenuto reale. Tutto ciò che esiste passa da lì. Tutto ciò che non passa da lì non esiste. A questo punto la pubblicità può svincolarsi dal suo ruolo politico per ricercare un effetto non immediatamente propagandistico.
La pubblicità prende a fare metafisica, riempiendo lo spazio lasciato vuoto dalla fine della filosofia. Nell’apparato cibernetico, questo ruolo è appunto svolto ora dall’ideologia pubblicitaria. Cosa vuol dire?
Vuol dire, per esempio, che la pubblicità cessa quasi del tutto di reclamizzare questo o quel prodotto, per passare a suggerire idee, ipotesi di mondo, visioni del mondo, filosofie. Laddove manca – vien meno – il pensiero, ci vengono offerti pacchetti di pensiero – eventualmente usa e getta – da consumare all’occorrenza. Secondo un processo che appare del tutto simile ai pacchetti turistici, ai last minutes e alle offerte imperdibili, che rimpiazzano l’antico (ormai antico) soggiorno all’estero, il viaggio, journey, che un tempo compivano i cosiddetti uomini di mondo.
Lo spot della Lancia Ypsilon consente di verificare questo processo in maniera alquanto puntuale. Lo slogan di questa campagna pubblicitaria è già ben noto: «Il lusso è un diritto». En passant, si può subito notare l’effetto propagandistico: l’asserzione, pura e semplice – soggetto, copula, predicato. Puro bit logico, o pacchetto informativo. L’imperativo è qui declinato nella forma di una mera attestazione. Il lusso è un diritto. Punto. Non c’è da discutere più di tanto. Del resto la riflessione è già stata snocciolata nel corso della pubblicità. Lo slogan è una conclusione. La conclusione di un sillogismo già compiuto. Anzi, a ben guardare, l’intero spot è strutturato secondo uno schema dialettico di tesi-antitesi-sintesi. C’è un dialogo a una voce la cui dialettica sfocia nella stringente conclusione dello slogan: «Il lusso è un diritto».
Ora, le tipiche reazioni possono essere due: l’accettazione passiva del messaggio («Cavolo, non ci avevo pensato! Eh sì, perché mai il lusso non dovrebbe essere un diritto? Giusto!», o ancora, il che è anche peggio: «Che bella pubblicità! Ben fatta, molto intelligente, elegante! Mi piace!»); oppure la negazione violenta e la denigrazione dello stesso («Che ipocrisia! Vallo a dire a chi non arriva a fine mese!»). Basta dare una scorsa ai commenti che circolano su You Tube, alle parodie o agli articoli che sono dedicati a questo spot, per rendersi conto che ogni reazione cade sistematicamente in una delle due summenzionate posizioni («A me lo spot piace! È una provocazione in positivo, sta all’utente riflettere sul suo significato», afferma, ad esempio, HashiPan, mentre HimynameisAntrax sbotta: «Che pubblicità falsa, ipocrita, truzza e schifosa». Piccolo assaggio di commenti su You Tube). Passive entrambi. E quindi non-posizioni, alla lettera. In entrambi i casi, infatti, sei lì dove ti ha messo lo spot. In entrambi i casi non pensi, ma lasci che lo spot pensi per te.
E allora? – si dirà – quale reazione si dovrebbe avere? Liberarsi dalla pubblicità vuol dire esattamente non reagire ad essa, non farsi trovare dove essa ti ha messo. Liberarsi dalla pubblicità vuol dire esserne indipendente e riflettere non a partire da essa. Liberarsi dalla pubblicità, ancora, vuol dire essere libero per il pensiero – liberare lo spazio d’ascolto per la domanda sull’essere che la pubblicità preclude. Liberare il campo precluso e forcluso dal masso del messaggio pubblicitario. Vuol dire anche non attardarsi sul dito dietro cui si nasconde la pubblicità.
Vediamo, allora. Il video è girato su pellicola cinematografica, in formato 16:9, molto elegante, con grana fine e bassa saturazione, leggermente virata sul seppia, a suggerire immediatamente l’idea di autorialità. Quasi b/n senza la pesantezza del b/n. Lo schermo è diviso in tre sezioni quadrate che sono utilizzate allo scopo di accentuare l’effetto dialettico, secondo uno schema oppositivo, di contrasto, oppure a sottolineare il recitativo in funzione didascalica. Si gioca di specchi. Vincent Cassel funge all’uopo di incarnare l’idea stessa dell’attore, impersonando l’uomo vincente ma pragmatico, con quella sua faccia da uomo della strada, per nulla finto e molto acuto. Si specchia spesso. Spesso appare moltiplicato attraverso un gioco di specchi, ma si sdoppia, anche, in questo dialogo che fa col suo alter ego.
La recitazione è decisa, netta, pulita. Le frasi sono dirette, chiare. Le espressioni forti. La mimica severa. Scena amletica: Vincent Cassel allo specchio della sua coscienza (lo spazio vuoto nel quale si muove suggerisce un paesaggio interiore). Si interroga. L’atroce dubbio esistenziale di Shakespeare è suggerito attraverso questa drammatizzazione della riflessione. Essere o non essere? Anche: essere o avere?
Lo specchio, il teatro, il doppio. La maschera shakespeariana. È evidente che quel che qui è in gioco fin da subito è l’essenza stessa della verità. Filosofia…
«Feste, gioielli, ville. Vivere negli eccessi. Ancora di più!». La recitazione è fortemente drammatica, quasi rabbiosa. Suggerisce immediatamente un “basta!”. Mette con le spalle al muro. La musica incalzante sottolinea questo momento di verità. Lo sottolinea come viene sottolineato in certi film il ritrovamento di un cadavere, o il momento che precede la resa dei conti. Si chiama climax. C’è dunque un climax, da subito, che incalza lo spettatore (significativamente confuso dal buon HashiPan con un utente, a indicare involontariamente la confusione semantica tra un fruitore attivo e il suo corrispettivo passivo: spettatore e utente sono infatti frattanto diventati entrambi sinonimi neutri del ben più caratteristico consumatore). Un climax che indica la resa dei conti: resa dei conti, evidentemente, del protagonista con se stesso. Con la sua coscienza: Vincent Cassel, chiamato ad interpretare il simbolo dello star system americano – abbastanza europeo per esserne critico outsider –, si specchia e riflette dialogando interiormente con la propria coscienza. Stende un bilancio: resa dei conti con se stesso. «Cos’è il successo?», si domanda, fattosi più intimista e meditabondo: «è ciò che possiedi?». Il furor teatrale si alterna all’elucubrazione amletica, in questa valutazione critica della propria esistenza.
«L’ostentazione è morta». Ecco la chiave: l’ostentazione del successo, la ricchezza, le feste i gioielli le ville, sono solo un’attestazione vuota d’esistenza. Il vero successo – la piena realizzazione di sé – è altrove. «Allora che cos’è il lusso? È il piacere che ti dà una cosa? O è il fatto di possederla?»…
Sì, la sensazione di disagio che si prova di fronte a questa frase – ammesso che la si provi – è pienamente giustificata: c’è uno slittamento logico che suona come un campanello d’allarme per chiunque sia abituato a rettificare il discorso. C’è un falso passaggio – non ancora un falso sillogismo, ma comunque un interrogativo vuoto, o meglio ricorsivo: a rigor di logica, il buon Cassel si sta domandando se il lusso consiste nel piacere di possedere una cosa o nel semplice fatto di possederla. Cioè si sta domandando se il lusso è un piacere. Cioè ancora si sta domandando se il fatto di possedere, poniamo, cento milioni in banca, sia di per sé attestazione di lusso, o se il lusso non sia piuttosto il piacere di sentirsi ricchi. È evidente che qui c’è una cattiva applicazione della logica: è come se si stesse chiedendo se cento milioni in banca rimangono cento milioni in banca anche senza spenderli. Ovvero: il lusso rimane un lusso anche se non provi piacere nel fatto di avere un lusso? Ecco: a ben guardare questa cattiva applicazione della logica è funzionale, poiché si tenta qui di far passare, con un gioco di prestidigitazione, l’idea che il lusso sia un piacere del lusso. Si tenta di far passare l’idea che una ricchezza non è tale se non è accompagnata dalla consapevolezza di questa ricchezza e dal piacere che se ne trae da una tale consapevolezza. È complicato? Sì, perché è una forzatura. Detto altrimenti, l’errore logico che è celato dietro questo passaggio forzato è l’appiattimento del dato materiale e dell’aspetto emotivo di cui il dato è caricato. È come se uno stesse dicendo: se hai cento milioni e non sei felice di avere cento milioni quei cento milioni sono carta straccia. Chiunque saprebbe che quei cento milioni restano in ogni caso cento milioni. Certo: i soldi non fanno la felicità. Ma dire che i soldi non sono soldi se non fanno la felicità è giustappunto una forzatura. No?
Ecco che il Cassel furioso rilancia: «[Il lusso] è puntare al massimo, è volere sempre di più. Non essere soddisfatti. Mai». «Tu non sai di cosa parli», lo rintuzza subito il Cassel riflessivo. Intanto, in questo contrappunto dialettico è passato pacificamente, sotto banco, il concetto del lusso inteso come sentimento del lusso. Il lusso coincide con il successo: è volere sempre di più. Non essere soddisfatti. Volontà di potenza. Ma no, ribatte il tipo riflessivo: la vera realizzazione di sé è altrove. «Tu non sai di cosa parli», dice, e aggiunge: «A volte il vero lusso sta nelle cose più semplici». Anche qui, uno inizialmente drizza le orecchie: ma che sta dicendo? Di solito questo è un discorso che si fa con la felicità. La felicità, si dice, sta nelle piccole gioie della vita. Non era così? Ma non abbiamo il tempo di formulare questa riflessione di vigilanza, perché già ribatte il tipo furioso: «Sei solo un sognatore!», dice. Sei un sognatore! Ma sì, non era proprio quello che ci veniva detto quando dicevamo: i soldi non fanno la felicità? Non è la tipica accusa che ci muove il cinico materialista? Sei un sognatore: ancora insegui la felicità! Intanto, però, stanno continuando a parlare di lusso. «A cosa serve il lusso, se non riesci a godertelo?», la prestidigitazione è avvenuta: il sognatore sono io (in fondo, tutto il dialogo a una voce non è in seconda persona? Non sta parlando a me, forse?). Il lusso è ciò che mi fa godere. Ciò che non mi fa godere non è un lusso. Fossero anche cento milioni.
Ma sì, è chiaro dove ci conduce questa analisi. «Il lusso è un diritto». Come volevasi dimostrare.
La pubblicità svuota la filosofia della logica e si installa in questo posto vuoto, facendo giochi di prestigio in luogo di dialoghi. Ma perché c’è bisogno di questa prestidigitazione? Perché non parlare di felicità? Perché puntare su una riabilitazione del lusso?
Bene, la prima risposta che viene in mente, quando si sente questo slogan è: «Be’, se il lusso è un diritto, allora il diritto è un lusso». Viene in mente Marchionne. (Un momento: ma la Lancia non è Gruppo Fiat?…) E viene in mente anche che Marchionne è laureato in filosofia. Il vecchio sofista: vuoi vedere che c’è davvero una filosofia precisa dietro tutto questo?
Tuttavia non si deve correre: l’equazione immediata “se il lusso è un diritto allora il diritto è un lusso” non deve essere presa come reazione polemica, rifiuto scriteriato dello spot, pena ricadere in quella non-posizione che si diceva all’inizio («Se è un diritto vuol dire che la macchina non te la devono far pagare», commenta TheFlashPixel, ricadendo appunto in questa reazione allo spot, facendosi trovare dallo spot proprio là dove lo spot ti ha messo: nel posto del consumatore). L’uguaglianza “il lusso è un diritto = il diritto è un lusso” vale. Logicamente vale. Ma in un senso molto più profondo del mero rimprovero: “Marchionne sta riducendo i nostri diritti a un bene di lusso”. Piuttosto questa equazione mostra in profondità l’intera filosofia, si direbbe lo Spirito, che permea la visione del mondo di Marchionne e del neoliberismo maccheronico dell’attuale establishment. «Il lusso è un diritto» vuol dire in primo luogo che tutti noi abbiamo diritto al lusso, così come abbiamo diritto a una casa, alla realizzazione di sé, al lavoro ecc. Bene di lusso vuol dire, alla lettera: superfluo. Non è un bisogno. È esattamente ciò di cui si potrebbe fare a meno. Altrimenti non sarebbe un lusso. Semplice. Il pane non è un bene di lusso. I gioielli sì. I gioielli non si mangiano. Quindi far passare l’idea che il lusso sia un diritto vuol dire far passare l’idea che sia un diritto avere il superfluo. Ma qui, attraverso il gioco di prestidigitazione di cui si diceva, il superfluo è divenuto nel frattempo ciò che consente la realizzazione di sé, o la felicità: volontà di potenza. Heideggerianamente: volontà di volontà.
Ora, siamo qui su un piano prettamente ontologico: volontà di potenza è la formula attraverso cui Nietzsche esprimeva l’essenza dell’ente in generale. In maniera molto succinta – e quasi vergognosa – si può riassumere così: la volontà di potenza esprime il modo in cui ogni essere vivente vuole oltre se stesso. Vuole crescere. Realizzarsi in un atto di superamento di sé. Piegare la volontà di potenza al mero godimento del superfluo vuol dire individuare nel consumo l’essenza stessa dell’ente in generale. Se dunque dovesse valere questa opzione metafisica sarebbe evidente che il lusso, in quanto tale, coincide con la piena realizzazione di sé. Dunque sarebbe un diritto inalienabile.
Ma lusso qui non è inteso come l’ostentazione di ricchezza dell’uomo di successo – una simile ostentazione non è ontologicamente attestabile come volontà di potenza: è giustappunto semplice vanità. Piuttosto il lusso, tramite il suddetto gioco di prestigio, diventa l’essenza stessa del godimento: la volontà di potenza diventa volontà di godimento, dunque consumo. Il vero lusso è il consumo. La vera essenza dell’uomo è l’essere consumatore. Dunque il diritto inalienabile dell’uomo è questa volontà al consumo.
L’implicito imperativo categorico di questo spot è: consuma!
Una volta che sia stata ridotta così l’essenza dell’ente in generale a mera volontà di consumo, appare evidente che il vuoto allo stomaco che si prova di fronte a questa vuotezza dell’essere non può che trovare una sola soluzione: chi può permetterselo, acquisterà un SUV, espressione massima di una volontà di potenza surrogata, altrimenti potrà andar pur bene una Lancia Y.
Ecco la vera marchionnesca filosofia che c’è dietro la visione del mondo neoliberista: il tuo diritto non è nella realizzazione di te stesso attraverso il lavoro, ma nel desiderio incessante al consumo. Potresti richiedere le auto gratis, come vorrebbe TheFlashPixel (e lo Stato non sovvenziona forse in continuazione l’acquisto di auto?) ma non pretendere un lavoro gratificante. Non pretendere di realizzarti in quanto uomo. Questa è roba vecchia, appartenente alle vecchie ideologie dell’Ottocento e del Novecento. L’altra faccia, nascosta, dell’equazione, “il diritto è un lusso”, suggerisce proprio questo: il diritto è divenuto superfluo, una mera ostentazione. Il vero diritto, oggi, è il lusso, il consumo superfluo, lo spreco.
L’ostentazione è morta. Al contempo: il lavoro come vocazione (Beruf) è morto. La tua attuale vocazione, la tua attuale chiamata, è al consumo.
«I want you for the US Army».
Diego Rossi

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