L’inno alla dissoluzione: il carnevale della paura.
La campagna pubblicitaria
di CheBanca!, curata da casiraghigreco&, si è imposta negli ultimi anni
come una delle più definite e caratterizzate. La formula, standardizzata, è
molto aggressiva. Una canzone, di solito molto nota, legata alla tradizione popolare
italiana, facilmente riconoscibile ed orecchiabile, di cui presumibilmente il
testo è ben noto, ricontestualizzata per veicolare il messaggio pubblicitario e
le offerte della banca; un intero esercito di festeggianti coribanti che
danzano e cantano, in perfetto stile Broadway; i colori vivaci e netti di un
cartoon: sono questi gli elementi immediatamente riconoscibili nella serie di
spot di questa campagna. I protagonisti, quasi sempre sobri e ben vestiti,
tutto sommato abbastanza anonimi da potersi identificare intuitivamente con
l’italiano medio, indicano in maniera immediata il pubblico a cui volta per
volta lo spot si rivolge: professionisti, lavoratori, novelli sposi, pensionati,
donne in carriera. Il musical che fa da cornice alla quotidianità suggerita da
questi personaggi in giro per la città o nei propri uffici vuol essere ciò che
ogni musical, in fondo, è sempre stato: un intrattenimento esorcistico che
tenta di iniettare dosi di ottimismo nello stagnante mercato finanziario.
Veniamo così subito
all’ultimo spot della serie, il decimo per la precisione, on air dal 30 gennaio
e fino al 15 marzo, il cui “concept” «vede protagonista la corale voglia di
cambiamento: i protagonisti si liberano in maniera plateale dei tradizionali
modi di conservare i risparmi»[1]. Continuando a leggere
dall’articolo del Daily Media del 31/1/2011 veniamo a sapere in poche righe
l’intera parabola della strategia comunicativa finora adottata per pubblicizzare
CheBanca!: «dai primi, in cui il protagonista-cliente era invitato a conoscere
la nuova banca, ai più recenti dove è lui che la sceglie attivamente diventando
a sua volta trascinatore della folla (luglio 2010), fino a quest’ultimo in cui
i protagonisti rompono idealmente i vecchi schemi, esaltando una dirompente
voglia di cambiare»[2].
Il concept, ovviamente,
indica che c’è un concetto di fondo che vuol esser trasmesso: un nucleo, un
messaggio – la corale voglia di cambiamento. È questo il messaggio? Ovviamente
no: questo è solo il protagonista palese del messaggio (non dello spot – ma del concept). Qual è dunque il messaggio che si
vuol comunicare? Nulla di più esplicito: «È ora di cambiare! Porta i tuoi soldi
in CheBanca!». (Per la precisione, il recitativo dello spot usa le seguenti
parole: «È il momento di cambiare! Porta i tuoi risparmi in CheBanca!».)
Ecco il messaggio
esplicito dell’intero spot: “casomai qualcuno volesse cambiare non ha che da
portare i risparmi in CheBanca!”. Seguono poi informazioni utili a comprendere
i vantaggi che il risparmiatore ricaverebbe dal consegnare i propri risparmi a
CheBanca!: «Conto Deposito ti dà il 2,50% e gli interessi in anticipo».
Conclude lo spot il classico slogan della banca: «CheBanca! La banca per tutti
del gruppo Mediobanca».
Bene: i messaggi sono
semplici, espliciti, inequivocabili. Nulla di più chiaro. Trasparente? Certo,
anche questo fa parte dello spot: c’è un che di fascista nel proporre con tanta
forza il messaggio, chiaro e tondo, in maniera quasi propagandistica – fascista
e rassicurante. «Porta i tuoi risparmi in CheBanca!». È un dato di fatto.
Nemmeno un imperativo. Dal tono del recitativo si direbbe piuttosto un
esortativo. E lo è, certamente. Ma la consequenzialità è così stringente che,
alla fine, non c’è un’esortazione, quanto piuttosto una constatazione
imperiosa: «è il momento di cambiare!», non c’è proprio nulla da discutere. Non
ti resta che portare i soldi in CheBanca!. Ecco, anche questo è pubblicità. Ma
non solo questo.
Il testo è infatti
veicolato da un impianto coreografico colossale: un effetto a dir poco
violento. Ma probabilmente efficace, bisogna dirlo. È tutto uno scuotimento,
un’esplosione (proprio in senso letterale), una vibrante sensazione di
liberazione. Un inno alla gioia.
Lo spot inizia con
immagini dall’atmosfera orrorifica, un po’ claustrofobica, che ha qualcosa di
surreale, oltre che di spettrale. Una fitta serie di fotogrammi, quasi
istantanee in movimento, si direbbe, che non danno la possibilità di
comprendere il contesto e che proprio attraverso questa indeterminatezza
possono giocare il ruolo ambivalente che giocano: laddove l’occhio non riesce a
cogliere assolutamente alcuna materia cui aggrapparsi, la mente gestalticamente
elabora una trama di contesto che rinvia, ovviamente, all’immaginario più
immediatamente simile a ciò che vede. Nella fattispecie, a un film
horror/thriller. 1. Il gufare notturno, l’albero solitario e due fari d’auto
già basterebbero a rinviare ad un macabro omicidio, e il raspare di pale e
terreno disseppellito ne è l’iniziale conferma lampante. 2. Una coppia
attempata si fronteggia armata di ascia e martello nella penombra silenziosa di
una casa, in una muta posa che rievoca fantasmi, prima ancora che la
probabilità di una lite sanguinosa, immobilizzati in un’eterna contesa spezzata
d’improvviso da un sinistro squillare di telefono, che dà il via alla scena
successiva. 3. Mentre questo telefono fuori campo continua a squillare eterico
e minaccioso (“perché nessuno risponde?” è l’inevitabile domanda, non posta,
che si formula inconsapevolmente) si sentono lontane sirene (che inevitabilmente,
per associazione, offrono l’unico appiglio di risposta: “nessuno risponde al
telefono perché è successo qualcosa – qualcosa di grave”. Un omicidio?). Un
uomo è seduto frattanto sul divano, gli occhi persi nel vuoto, in braccio un
orsacchiotto di peluche. Sì, è successo qualcosa, evidentemente – qualcosa di
irrimediabile. Ha forse perso qualcuno di caro in modo violento? Ha forse lui
stesso compiuto un omicidio efferato e scabroso? Si tratta di sua figlia? Di
una sorella minore? O è un pazzo scellerato rimasto attaccato alla sua
infanzia, che attende l’inesorabile destino di galera dopo aver compiuto
crimini ignominiosi? Le ombre sul volto, l’oscurità della stanza, gli
attizzatoi defilati sul margine: tutto contribuisce a creare questo clima
d’attesa inquietante. 4. Una figura si muove lungo la veranda di una ricca
villa. È un’ombra, nulla di più, probabilmente una donna, che regge un oggetto
lungo e sottile (una mazza da golf: ma ora non si riesce ancora a distinguere).
Si muove lungo questa vetrata specchiata in piscina, tra statue di cani e
grosse piante d’appartamento. E al suono del telefono e delle sirene si
interpola per un momento un vago latrar di cani. Siamo evidentemente sulla
scena di un omicidio. Non ci possono essere dubbi a questo punto: la scena è
quella di un telefilm poliziesco ambientato a Bel Air o qualcosa del genere. Ma
è giusto un attimo. 5. La scena successiva mostra un’anziana signora intenta a
lavorare a maglia seduta in una rossa poltrona d’un salotto arredato
all’antica. L’inquadratura taglia fuori il resto della stanza e suggerisce una
sensazione di solitudine. Vien fatto di immaginare la nonnina sola nel freddo
di una casa troppo grande per lei. Alza lo sguardo preoccupata: il lampadario
si muove tintinnando sinistramente. È in qualche modo la conferma subliminale
delle nostre preoccupazioni: la casa è infestata. 6. La scena successiva sembra
confermare ogni nostra paura: dal buio di uno spiraglio di porta emerge la lama
affilata di un coltello da cucina. Il ticchettio sordo di un orologio a pendolo
(fuori campo) sottolinea l’incedere della figura femminile che avanza col
coltello in pugno, tenuto a pugnale davanti alla faccia. Lei è una bella mora,
giovane, scosciata in camicia da notte. È tesa. Sta forse girando per la casa
in cerca del maniaco che la perseguita. Oppure è lei stessa l’assassina.
Infatti si avvicina al letto, dove sta dormendo un uomo – suo marito, si
suppone. A questo punto è chiaro: lei è stanca della solita vita coniugale e
vuole darci un taglio netto. E qui si compie il rovesciamento di tutto
l’impianto (ed il rilascio della tensione). Lei infatti si avvicina velocemente
al letto, alza di scatto il coltello scostando le lenzuola e, invece di
pugnalare il marito, squarcia il materasso.
Scoppia il coro dell’Inno alla gioia di Beethoven, mentre dal
taglio nel materasso fuoriescono banconote. A questo punto ripartono tutte le
altre scene, che si risolvono allo stesso modo con questo rilascio festoso
della tensione nella gioiosa distruzione di oggetti: la ricca signora nella
veranda, armata di mazza da golf, spacca una delle statue di cani, facendo
esplodere un mucchio di monete d’oro; un’intera famiglia armeggia alla libreria,
sparpagliando e lanciando tomi, per trovare i soldi nascosti tra le pagine; la
signora in rosso armata di ascia la brandiva, in realtà, solo per scagliarla
contro la parete, seguita dal marito, per cacciar fuori il tesoro che vi
avevano murato; un uomo spacca col martello le mattonelle del pavimento,
probabilmente per sfondare il lampadario della vecchina, dal quale cade una
pioggia di banconote che la vecchina accoglie con goduria; l’orsacchiotto
dell’ombroso signore era in verità un simpatico ripostiglio da decapitare e
squartare per farne emergere denaro; e così i due loschi figuri che scavavano
la fossa all’inizio della sequenza non facevano altro che riesumare il vecchio
bottino, agguantato con entusiasmo, come se fosse stato vinto dopo tanto
sforzo.
Lo spot poi continua con
un’esagerazione iperbolica, mentre parte finalmente il recitativo, che giunge
nel momento di massimo parossismo a dare una spiegazione razionale (la voce
suadente e rassicurante funge all’uopo: “tranquilli – c’è una spiegazione dietro
tutto quello che state vedendo, non sono tutti ammattiti”). Dalle finestre dei
palazzi volano casseforti, materassi e una pioggia costante di banconote, un
vero e proprio profluvio di banconote. È il caos. Ma un caos gioioso, festoso,
meraviglioso. Un carnevale. Le persone si guardano attorno, sbigottite ed
estasiate. Finalmente! La mano di Dio! La rivoluzione! Era proprio ora di
cambiare! Portate i soldi in CheBanca!.
Il tutto si conclude
nell’esplosione finale di quelle che sembrano delle cassette di sicurezza.
Un’esplosione di soldi, ovviamente. Soldi, soldi, soldi!
Esplosione. Gioia e
rivoluzione. La banca per tutti.
L’Inno alla gioia è quanto di più immediato vi sia per trasmettere
questa sensazione di esplosività carnascialesca, questo rilascio trionfante di
ogni tensione e paura, questo abbandono totale e felice alla vita, al
godimento, all’estasi. Mistica del capitale.
Sarebbe così tutto
estremamente chiaro: abbiamo decostruito e decrittato il messaggio. Un
messaggio, tra l’altro, palese. Sennonché proprio l’Inno alla gioia ci invita a fare una riflessione più approfondita
e, in qualche modo, vertiginosa. C’è un vero e proprio fantasma, qui, un
rimosso inascoltato perché tagliato via dallo spot e che costituisce l’ironico
retroscena di tutto l’impianto. È l’ironia beffarda del fantasmatico, per cui
la cosa non è mai quella che è semplicemente, ma è sempre solo più lo spettro
di se stessa. Il delitto non è mai perfetto!
È il solito Žižek[3] a darci il giusto indizio.
La Nona di Beethoven, dice, piace
stranamente a tutti, proprio a tutti: è un vero e proprio “significante vuoto”
che può rappresentare qualsiasi cosa. Così è innalzato da Rolland a ode
umanista della fratellanza ma è nel contempo suonato per il compleanno di
Hitler; piace nella Cina della Rivoluzione culturale in quanto «opera della
lotta di classe progressista» e nel Giappone contemporaneo perché esprimerebbe
il concetto tutto nipponico di “gioia attraverso la sofferenza”; si presta a
fare da inno per le squadre olimpiche delle due Germanie unite in gara ma anche
come inno nazionale del regime razzista bianco rhodesiano di Ian Smith. Tanto
che Žižek propone questa immagine di una performance in cui tutti i nemici
giurati – Hitler e Stalin, Bush e Saddam – si uniscano in un’estatica
fratellanza nell’ascolto dell’Inno,
in stile We are the World. Tuttavia,
aggiunge: «prima di liquidare il quarto movimento come un pezzo “distrutto
dall’uso sociale”, mi si lasci sottolineare alcune particolarità della sua
struttura»[4]. Vediamo:
Nel mezzo del movimento,
dopo aver ascoltato la melodia principale (il tema della Gioia) […], in questo primo climax, accade qualcosa di inatteso che
ha suscitato critiche negli ultimi 180 anni, sin dal momento della prima
esecuzione: alla battuta 331, il tono cambia completamente, e invece di una
solenne progressione innica, lo stesso tema della Gioia viene ripetuto nello stile della marcia turca, preso a
prestito dalla musica militare per strumenti a fiato e a percussione che gli
eserciti europei del diciottesimo secolo avevano adottato dai giannizzeri
turchi – lo spirito qui è quello della parata popolare carnevalesca, uno spettacolo
ironico. E da questo momento in poi, le cose vanno male, la semplice dignità
solenne della prima parte del movimento non viene più raggiunta: dopo questa
parte «turca» e in un chiaro contromovimento rispetto a essa, in una sorta di
ritiro in una intima religiosità, la musica corale […] cerca di dipingere
l’immagine eterea di milioni di persone che si inginocchiano abbracciandosi
l’un l’altro, contemplando con venerazione il cielo distante e cercando il Dio
paterno e amorevole che deve dimorare al di sopra della volta celeste («übern Sternzelt muss ein lieber Vater wohnen»).
Tuttavia, la musica, per così dire, si inceppa quando la parola muss, resa prima dai bassi, viene
ripetuta dai tenori e dai contralti e infine dai soprani, come se la
ripetizione di questa invocazione fosse un tentativo disperato di convincere
noi (e loro stessi) di ciò che sappiamo non essere vero, trasformando il verso
«un padre amorevole deve dimorare» in un atto disperato di implorazione, e
attestando così il fatto che non c’è nessun padre amorevole a proteggerci e a
garantire la nostra fratellanza. [Il finale è] una mistura bizzarra di
orientalismo e regressione al classicismo del tardo diciottesimo secolo, un
duplice ritiro dal presente storico, un’ammissione silenziosa del carattere
puramente fantasmatico della gioia della fratellanza universale.[5]
Ecco qui: abbiamo ora
tutti gli elementi per non “archiviare” il caso CheBanca! e anzi per
rilanciarlo in tutta la sua dirompente problematicità. C’è un’ironia intrinseca
nelle cose che sfugge sempre, nell’impalpabilità del proprio fantasma, al
controllo positivistico della comunicazione. Lo «spettacolo ironico» della «parata popolare carnevalesca» diventa la
parodia di sé nell’apparato coreografico da musical dello spot – uno spettacolo
ironico che si trasforma in un inquietante contromovimento quando lascia
trasparire tutto il tragico fantasmatico che lo sottende: l’impotenza delirante
che fa da contrappunto all’esplosione di gioia.
L’Inno alla gioia ci dà allora il la per la decostruzione dell’intero
impianto pubblicitario(/plebiscitario) dello spot, nella decostruzione stessa
che la sinfonia offre di sé («se mai c’è stata una musica che ha letteralmente
“decostruito” se stessa, è questa», afferma Žižek):
L’unica soluzione radicale
è spostare l’intera prospettiva e rendere problematica la prima parte del
quarto movimento: le cose non vanno veramente storte alla battuta 331, con
l’ingresso della marcia turca, vanno storte sin dall’inizio. Si dovrebbe
assumere il fatto che nell’Inno ci
sia una sorta di messinscena insipida, così che il caos che ha inizio dopo la
battuta 331 è una sorta di «ritorno del represso», un sintomo di quanto era sbagliato sin dall’inizio. E se avessimo
addomesticato eccessivamente l’Inno alla
gioia, se ci fossimo troppo abituati a esso come a un simbolo di gioiosa
fratellanza? Se dovessimo confrontarci nuovamente con esso, rifiutando in esso
ciò che è falso? […] Se la vera oscenità fosse ciò che ha luogo prima della marcia turca e non dopo di
essa? Se spostassimo tutta la prospettiva e concepissimo la marcia come un
ritorno alla normalità quotidiana che taglia corto con questa esibizione di
prodigiosità ridicola e ci riporta con i piedi per terra[?].[6]
Lo spot di CheBanca!,
indubbiamente, dà ragione a Žižek: l’esibizione di ridicola prodigiosità della
sua coreografia non fa che dimostrare quanto poco si sia inteso l’Inno alla gioia e quanta oscenità vi sia
prima della marcia turca.
Contemporaneamente, però, questa lettura dell’Inno ci offre la chiave per accedere a tutto il rimosso che c’è dietro lo spot!
Siamo così posti di fronte
all’orrore: quell’orrore turco
(l’orientalismo caotico che sovrasta da ogni lato la cittadella sparuta della
civiltà) che è orrore cosmico per un vuoto incolmabile di senso; quell’orrore
che si dà nei dettagli – un lampadario che tintinna sinistro, il vuoto incedere
del tempo nel ticchettio di un orologio, il richiamo della civetta nella Sinnlosichkeit della notte – e nei
dettagli che rivelano l’assenza di un «padre amorevole» oltre la volta celeste.
È quell’orrore infondato – ché non si erge su alcun fondamento – che è
l’angoscia. Orrore esistenziale.
Nell’analitica
esistenziale, Heidegger spiega quale sia la differenza fondamentale tra
angoscia e paura: quest’ultima è causata da un pericolo che ci minaccia
direttamente da vicino e che ci spinge ad una reazione; l’angoscia, invece, non
ha oggetto. Sorella gemella della meraviglia, l’angoscia è quell’inquietudine
che si prova nella solitudine e che esperiamo quando meditiamo sulla morte,
ovvero sull’insensatezza della vita. Ed è proprio quello l’orrore turco che fa
da sottofondo represso all’Inno alla
gioia di Beethoven.
Ma con questo veniamo
anche a scoprire il vero orrore di
questo spot, il fantasma che sta celato nelle cantine inconsce della sua
gettata coreografia. Tutto questo carnevalesco trionfalismo, questo
parossistico e parodistico ottimismo, non sono altro che tentativi impotenti di
nascondere l’orrore. Ma attenzione: se è chiaro l’intento di veicolare
ottimismo per contrastare la crisi e dunque instillare fiducia per vendere i
propri servizi, questo è solo l’aspetto più appariscente e dichiarato. In
verità, ciò che lo spot lascia celato è il fatto che tenta di incanalare il
malessere esistenziale – l’angoscia – in un potlach esorcistico di
dissoluzione. Ed in questo modo svela l’intento generale della pubblicità:
attaccarsi a quel fondo vuoto che è l’esistenza e ingenerare orrore (tutta la
prima parte è dedicata a suscitare orrore) per offrire dunque palliativi e
innescare il meccanismo di dissipazione e consumismo. «È il momento di
cambiare!» rivela dunque il suo doppio nascosto: «Brucia! Brucia! Consuma
tutto! Solo così riuscirai a vincere quell’orrore e quella fame che non ti sai
spiegare! Non pensarci: sperpera!».
E veniamo così al core della pubblicità – di ogni
pubblicità: Öffentlichkeit, ovvero
anche il man inautentico utilizzato a
scopi commerciali. Dilazionare e rinviare indeterminatamente il faccia a faccia
con la propria angoscia e reprimere tutte le paure nella grande mammella del
sistema consumistico.
La distruzione,
l’esplosione, già analizzata da Elia Ramonti (Love of Pink), viene dunque qui esplicitata nei termini di una
dissoluzione carnascialesca che mira ad obliare la tragedia. Obliare se stessi,
anche. Obliare, infine, il fatto stesso d’essere già obliati. Già morti?...
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