sabato 11 dicembre 2010

Costrutto (Frankenstein)


Per costrutto, nel contesto di un Geisterbuch, è da intendersi un qualunque non-morto rianimato per effetto di una manipolazione artificiale di materiale cadaverico. Nella fattispecie, il costrutto per antonomasia è ovviamente la creatura di Frankenstein, laddove però è necessario, pur nella povertà immaginifica di figure simili della cultura popolare, ipotizzare per il Frankenstein solo più un caso particolare della categoria universale del genere “costrutto”, così come Dracula, vampiro per antonomasia, non è che un singolo individuo della famiglia fantasmatica del vampiro.
Boris Karloff nel "classico" Frankenstein del 1931
Bisogna tener presente, del resto, che se scarseggiano varietà non-morte di costrutti, questo vale unicamente nel quadro delle tradizioni immaginifiche popolari (e non è certo un caso che Frankenstein sia un prodotto della letteratura colta), laddove la fantasia individuale non ha alcun problema a produrre un’infinita gamma di variazioni possibili: i costrutti sono, in effetti, una categoria specifica in giochi di ruolo di successo come D&D, con caratteristiche ben definibili e individualizzanti. (Per certi versi, si potrebbe dare una lettura del gioco di ruolo come di una macchina post-moderna per la produzione di chimere fantastiche a partire da nuclei di materiale archetipico, bricolage virtuale di mitemi, o piuttosto anche di fantasemi: è alquanto significativo che la terza edizione del D&D abbia introdotto il concetto di “archetipo” all’interno delle regole del gioco come modello base di creazione di un determinato tipo di creature – dunque abbiamo l’archetipo “drago”, l’archetipo “non-morto”, l’archetipo “bestia magica” e così via, tra i quali figura, ovviamente, anche l’archetipo “costrutto”. Anche in questo settore dell’entertainment, evidentemente, si è imposto il modello rizomatico del capitalismo virtuale.)

venerdì 10 dicembre 2010

L'ombra del vampiro


L'ombra del vampiro (Shadow of the Vampire), di E. Elias Merhige, 92 min., USA 2000.

Se il vampiro è spirito incadaverito, cadavere spettralizzato, paradosso deambulante nelle notti buie che calano sulle terre dell’inconscio, tecnica primordiale desacralizzata di rimemorazione della morte come non-essere esistente, il cinema è vampiro spettralizzante, acchiappafantasmi, creatore, evocatore di spettri, preso, anche lui come l’altro, dalla folle contraddizione del liminare, dalla domanda amletica sull’essere, dalla pretesa faustiana di immortalità, dalla nostalgia del vissuto, dal desiderio di memoria.
Nell’ambito del ciclo di proiezioni sul vampiro – figura di non-morto affatto peculiare nel suo genere, diremmo immagine “spettraverica” della non-mortità – il film di Merhige ha consentito un ampliamento della (meta)critica iconografica del cainita, aprendo ad una stimolante riflessione sul cinema come tecnica fantasmatica, declinabile al vampirico.  
Relativamente al suo contenuto immediato, Shadow of the Vampire è la ricostruzione di un possibile backstage del Nosferatu (1922) di Murnau. Immergendosi nel clima politico-culturale che si respirava nei territori pulsanti di vita della Germania pre-hitleriana, Merhige realizza un vero e proprio tributo all’arte del «geniale cineasta tedesco» che – si legge nella didascalia esplicativa che precede le immagini di apertura – «gira il più realistico film sul vampiro mai realizzato ed aggiunge il suo nome a quello dei più grandi registi di tutti i tempi».

lunedì 6 dicembre 2010

Nosferatu


Nosferatu il vampiro (titolo originale: Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens), di F.W. Murnau, 94 min., b/n, muto, Germania 1922.


Con il Nosferatu di Murnau, parte il ciclo dedicato ai Vampiri.
Il termine vampiro è di origine slava ed è formato dalle parole wempti, “bere”, e da uber, “l’essere diabolico”. Di fatto, il vampiro è un demone che beve, un non-morto che per sopravvivere deve nutrirsi del sangue dei viventi.
La prima volta che il termine vampiro appare in un documento ufficiale è collegato al concetto di virus. Infatti, tra il 1600 e il 1700, si assiste ad una vera e propria epidemia di vampirismo in Moldavia. Qui nel 1725, la salma di Andreas Berge viene etichettata come Vampertione infecta. Ma non fu l’unico caso, tant’è vero che solo nel 1824 il Parlamento inglese decise ad abolire la legge che obbligava a trafiggere con un cuneo di legno i cadaveri dei suicidi e di coloro che avevano subito una morte violenta. Era una specie di precauzione. Un modo per difendersi da coloro che, almeno così si pensava, avevano ancora un conto in sospeso con il mondo dei vivi e non riuscivano ad andarsene.
La prima volta che, dal punto di vista letterario, incontriamo il Vampiro, così come noi lo immaginiamo, è nel romanzo di John William Polidori. Questo testo ha origine in una circostanza particolare. Nel 1816, Lord Byron invita a trascorrere l’estate in Villa Diodati a Ginevra il suo medico Polidori, Shelley con sua moglie Mary, e la sua amante Claire.
Come racconta la Signora Shelley, quell’estate fu particolarmente piovosa e li costrinse a stare spesso in casa. Così Byron propose di scrivere un storia di fantasmi. Solo due di loro lo presero sul serio. La prima fu la stessa Mary Shelley, che diede vita al suo Frankestein. Il secondo fu Polidori con Il Vampiro. Questo racconto traccia la figura di un Lord Ruthven, un aristocratico seducente, di prestigio, amato e invitato spesso a prender parte a serate mondane e che fa ciò che vuole delle fanciulle. Chi dimostra scherno o non crede alla sua esistenza, è destinato a pagare a caro prezzo la sua incredulità.
Tutto ciò ci porta alla composizione del romanzo più famoso e più ripreso sui vampiri, Dracula di Bram Stoker. L’impresario teatrale prese spunto non solo dalla letteratura preesistente, dai documenti ufficiali e dalle notizie riportategli da Arminius Vambery, studioso di vampiri che gli parlò di Vlad l’Impalatore, ma da un incubo. Una notte Stoker si svegliò di soprassalto e scrisse su un foglio ciò che avevo sognato.
Un giovane esce, e vede tre fanciulle.
Una di loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola.
Il vecchio Conte interviene.
Con rabbia e furia diaboliche.
“Quest’uomo mi appartiene, Io lo voglio”.[1] 

Sarà proprio a partire da questo incubo e intorno a ciò che Stoker scriverà il suo capolavoro, pubblicato in Inghilterra nel 1897.
Alcuni anni dopo, il romanzo verrà tradotto in Germania e da esso Murnau prenderà spunto.
Il suo film non è una semplice trasposizione cinematografica ma rappresenta un modo per esprimere se stesso.
Il film, per alcune ragioni, rappresenta un caso. Prima di tutto perché al regista fu negato il permesso dalla vedova di Bram Stoker, che deteneva i diritti del romanzo, di girare il film. Ma Murnau non si perse d’animo. Cambiò il nome del Conte che divenne Orlok, l’ambientazione e il titolo. Da Dracula a Nosferatu, che in lingua rumena vuol dire proprio non morto (non spirato). Il sottotitolo è eine Symphonie des Grauens, una Sinfonia dell’Orrore. Si tratta, in effetti, di un film muto, in cui la presenza della Symphonie, della musica, è importante. Accompagna tutti i momenti del film, quasi come se fosse una Voce Narrante.
In seguito alla proiezione organizzata dallo stesso Murnau nel 1922, partì l’accusa di plagio che costrinse il regista a distruggere le copie della pellicola. Per fortuna, riuscì a salvarne una.
Questo film fa sicuramente parte della corrente dell’espressionismo per il tema orrorifico, per i toni chiaroscurali, per la visione pessimistica della natura umana e per la presenza di un destino ineluttabile che porta all’infelicità. Come se si sapesse e si sentisse nell’aria ciò a cui stava per andare incontro la Germania degli anni ’20. Allo stesso tempo, questo film mostra alcune caratteristiche della Kammerspielfilm. Le scenografie sono legate alla quotidianità, con interni che indicano la posizione sociale dei protagonisti. Hutter ed Ellen appartengono alla piccola borghesia e la cura dei particolari e degli oggetti lo fa trapelare. Si nota poi che la scena sembra voler essere racchiusa nell’obiettivo della camera da presa. È difficile dire se questo fosse l’intento del regista o se è dovuto ai negativi salvati. Ma lo spazio sembra chiuso tutto in un cerchio.
Un’altra protagonista dominante è l’Ombra. È dall’ombra che il Conte esce per accogliere l’appena arrivato Hutter ed è sempre nell’ombra che lo ghermisce. Come scrive Deleuze: «L’ombra di Nosferatu presenta allo stato più puro l’effetto della Minaccia. L’ombra si prolunga all’Infinito…»[2].
Altro aspetto fondamentale è il viaggio: Hutter riceverà vari segni che lo inviterebbero a non partire, sia dagli uomini che dagli animali. La stessa Ellen si mostra turbata e angosciata. Ma Hutter sorvola su tutto e anzi si affretta verso la sua meta. Davanti a Il Libro dei Vampiri, ha una reazione di scherno, per cui verrà punito, così come accade ne Il Vampiro di Polidori.
Una volta giunto al Castello ha inizio il valzer tra due alterità. Hutter, l’uomo modesto, pavido, che non coglie il vero senso di ciò che gli sta intorno e il Conte Orlok, che riesce completamente a dominarlo. Sia mentalmente che fisicamente.
Murnau stesso è altro, diverso sia per la sua omosessualità sia perché non si sente appartenente alla classe dell’alta borghesia paterna. Per questo, sarà necessario un scontro con il padre, che sarà voluto fortemente e lo porterà a cambiare nome (Murnau è lo pseudonimo di Plumpe) e vita. Da questo momento, Murnau comincia la sua formazione teatrale e dopo sceglierà il cinema come forma di espressione.
Una nota di omosessualità si coglie nel rapporto tra Hutter e il Conte. Hutter si lacera il pollice mentre taglia il pane ed è quasi come se offrisse il suo sangue (Sangue prezioso!) al Nosferatu e lo accetta come parte di sé. Ellen, l’eroina, sembra quasi una veggente. Vede ciò che accade attraverso visioni oniriche e si protende quasi a voler salvare Hutter. Inutilmente, il medico e gli amici penseranno ad una febbre alta! Hutter, invece, si convince che ciò che gli accade siano solo strani sogni. Persiste nel suo non voler considerare la realtà per quel che è. Non accetta quello che succede ogni notte. Quando si renderà conto dell’Orrore, allora scapperà.
Il suo viaggio stavolta è una fuga da Orlok e da quello che è successo. È convinto di poter dimenticare, che abbandonando il Castello potrà vivere come se nulla fosse avvenuto. Contemporaneamente, anche Orlok viaggia. Vuole arrivare da Ellen, che in parte è già sua attraverso le visioni. Si ha anzi la sensazione che tutto il film proceda velocemente per arrivare al momento del loro incontro.
È, inoltre, simbolico che non si capisca chi Ellen aspetti e di chi senta veramente l’arrivo. Ma anche lei si illude. Crede che il ritorno di Hutter la possa salvare. Ormai lei è di Orlok. Si sente pressata dalla sua presenza e dal suo sguardo e decide di sacrificarsi.
Un altro aspetto, forse quello veramente fondamentale, è il femminile. Ellen è la veggente, colei che vorrebbe dissuadere Hutter dal viaggio ma non può perché deve compiersi. Lei è anche l’eroina, la salvezza del mondo e di se stessa. Non può sottrarsi al Nosferatu perché è sua. Significativo è che Hutter, una volta tornato a Brema, non faccia assolutamente niente per informare o per ostacolare Orlok. Proibisce semplicemente a Ellen, che disobbedirà, di leggere Il Libro dei Vampiri e si chiude in casa come tutti alla notizia di uno strano virus.
Altra componente femminile è rappresentato dalle unghie lunghe di Olork e dalla Natura, che sembra dalla parte del vampiro. Gli animali annunciano la sua presenza e la Terra, in cui è stato sepolto, gli è necessaria.


[1] Il foglietto originale, trovato tra le sue carte, è ora conservato nella Rosenbach Library di Filadelfia.
[2] Deleuze G., L’immagine-movimento. Cinema 1, Milano, 1984, p. 135.

Gabriella Galbiati

venerdì 26 novembre 2010

Zombie


Zombie: Come è noto lo zombie ha origine in quel di Haiti[1], dove gioca un ruolo tutto sommato marginale all'interno della complicata mitologia vudù. Tuttavia, è quanto mai significativo che esso sia diventato una figura persistente dell'immaginario occidentale, e statunitense/hollywoodiano in primis[2].
Nella mitologia vudù[3], ovvero nel folklore haitiano, lo zombie è una vittima del Bokor[4], negromante in grado di parlare con i morti ed a metà fra uno spirito egli stesso ed un comune mortale, il quale ha il potere di dare la morte a qualunque persona e, all'occorrenza, di trasformarla in zombie. Il che può avvenire essenzialmente per due ragioni: o per vendetta o per assicurarsi uno schiavo fedele per l'eternità. È interessante il processo attraverso il quale il Bokor compie questo misfatto: egli individua una vittima, dopodiché si dirige a cavallo fino alla casa di questa, ne aspira l'anima accostando la bocca ad una fessura della porta, la intrappola in una bottiglia che provvederà a chiudere ermeticamente ed il gioco è fatto. Dopo pochi giorni la vittima, privata del suo spirito vitale, muore. La notte successiva alle esequie il Bokor potrà allora disseppellire il cadavere, chiamarlo per nome, costringendolo a rispondere con un cenno (dal momento che egli è il possessore della sua anima), e sniffare dalla bottiglia l'anima del malcapitato, concludendo così il rituale che lo trasformerà definitivamente in zombie.

giovedì 25 novembre 2010

Frankenstein di Mary Shelley


Frankenstein di Mary Shelley (Mary Shelley's Frankenstein), di K. Brannagh, colore, 123 min., USA 1994.


Frankenstein di Mary Shelley, prodotto da F. F. Coppola e diretto da Kenneth Branagh, può considerarsi la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo filologicamente più corretta, nonostante alcune differenze.
Con questo film, concluso il “ciclo zombie”, si apre un capitolo nuovo caratterizzato dalla categoria del costrutto per eccellenza.

martedì 16 novembre 2010

Appunti su "Frankenstein" di Mary Shelley


Il tentativo intrinseco nella stesura di Frankenstein (e ci riferiamo in questo caso al film girato nel 1994 ma anche, e forse in maniera più diretta, da quanto emerso durante il dibattito, al testo originale) consiste nella ricerca folle di una possibilità di sovvertimento dell’ordine sociale.
Sovvertimento che non passa per la famiglia (crogiolo delle pulsioni e casomai vittima ed “emblema” dello stravolgimento) e non passa per la società (che si tiene un po’ alla larga dallo svolgimento se non come folla inferocita, ruolo statico di per sé). Il cambiamento avviene sul terreno di scontro del mito fondativo: ad edipo, la shelley vuole sostituire Frankenstein.
Che cosa fa edipo? Disperde i flussi familiari sul campo sociale con il suo pellegrinaggio (e su questo punto non si insisterà mai abbastanza: edipo non è il maniaco casa-famiglia) e invece Frankenstein, già disperso si installa continuamente sul campo familiare prosciugando i flussi del raccolto (che lui compie in una sola sera), i flussi dell’apprendimento (che lui esperisce in solitudine, rubando dalle lezioni che la bambina riceve). In pratica un superuomo (ed anche sub uomo, per rimanere in tema) che cancella la storia con la sua presenza.
Inserito nel contesto familiare il suo prosciugare è ancora più radicale: uccide il fratellino del dottore, la sorella amante del dottore, il padre del dottore, uccide se stesso figlio del dottore in un vortice di autodeterminazione che dovrebbe essere la parabola di un nuovo genere umano che si autoesclude dal creatore maschio, divino e si compie.
Compimento che passa per la strage famigliare, per la strategia di distruzione radicale.
Piccolo appunto per il dottore: sin dall’inizio sottolinea come la sua operazione scientifica abbia un riscontro in quella dell’esploratore al quale di confessa (“ti spinge la mia stessa follia”) ricordandoci come il patriarcato agisca indifferentemente sulla creazione così come sulla colonizzazione.
E possiamo anche dire che con questo la shelley ha fatto piazza pulita di un bel po’ di cose.
Considerazione personale: Frankenstein si è ritrovato ad essere così pregnante per lo svolgimento storico, così come amleto. Sugli autori (ma potremmo dire scopritori) di queste figure si adombra un sospetto di preveggenza, chiaroveggenza e genialità talmente forte da sconvolgerci e da portarci a considerare come via d’uscita che sia stato il dibattito culturale a dare tutta questa significanza ai loro prodotti.

Elia Ramonti

venerdì 12 novembre 2010

L'alba dei morti dementi


L'alba dei morti dementi (Shaun of the Dead), di E. Wright, colore, 99 min., Gran Bretagna 2004.

Shaun of the dead. Shaun dei morti. Shaun tra i morti. Uno dei morti[1]
Sveglia la mattina, piedi sulla moquette, barcolli verso una bevanda calda e del pane tostato con la marmellata, poi lavi denti, faccia e esci in strada. Vai a lavorare.
Ogni giorno, il rituale della quotidianità. Ogni giorno identico all’altro con la rassicurante convinzione che la vita sia veramente tutta lì. Gesti rituali di sveglia, di locomozione, di mercato, di ufficio. Rituale dove il sacrificio della vita è il vivere. Sacrificio rituale che coincide perfettamente con la vita, nel caso del manager con valigetta; sacrificio rituale che coincide con la vita affettiva senza domande, senza sforzi, nel caso di Shaun. Shaun che si rintana nel solito pub; Shaun che subisce senza proposte l’amicizia, la famiglia, l’amore.
Si barcolla per strada e non si distingue un ubriaco da un morto, un drogato da un morto, una commessa, un barbone, una compagna di viaggio. Non li si distingue dai morti, non più. L’Homo Europaeus ridotto a struttura di deambulazione del mercato. Mitumba[2] vivente e magari firmata. Non si  può interrompere la spirale molle e mediocre della nostra esistenza nemmeno se si è disadattati, non possiamo uscire dalla tautologia del vivere per sopravvivere: vivere per lavorare per sopravvivere (Pete), vivere per non vivere per sopravvivere (Ed), vivere per resistere per sopravvivere (Shaun). Sono, queste, la medesima condizione che condivide la radicale mancanza di scelta. Unica decisione di non decidere. Chi fuma e fa male, chi non fuma e fa bene. Nel welfare nordeuropeo non si sceglie, non si diventa. La differenza è contemplata solo davanti a chi fa male e chi fa bene e per questo discrimine ci sono i media.
I Warning, le avvertenze, quelle del no al bagnetto dopo il pranzo, no al fumo, no all’alcol, sì al pilates e alle beauty farm! Biopolitica=tanatopolitica. Struttura portante del welfare, che si regge su questo sì! e questo no! Irreggimentazione fondata sul “si deve per vivere” che argina il contagio, la violenza, anestetizza. Legge girardiana antiviolenza. Pillola matrixiana da ciucciare beati sotto le lenzuola. Automatizzazione del vivente=zombi… ma non diciamo la parola con la z!
Questo lo scenario sul quale si muove Shaun, e Shaun non fa altro che muoversi-barcollare appunto ripetitivamente su uno stesso scenario. Fino a quando qualcuno per lui dice "Basta!" Fin quando la persona che ama non riesce più a rendersi complice della ripetizione senza fine, senza pretese, senza domande.
Allora, anche se lo scenario è diverso, pur se anestetizzato dall’alcool, Shaun decide di mettere in ordine la sua vita. E così, la mattina si sveglia e con orrore scopre i buoni propositi sulla lavagnetta. Cambia qualcosa? No, veramente, almeno fino a quando la fine del mondo non gli entra in casa. Quando l’apocalisse sotto forma di lividi corpi animati sfonda le finestra della sua esistenza casalinga.

I. Bildung

C’è un po’ di romanzo di formazione in questo tongue in cheek. Buoni propositi, fine del mondo, presa di coscienza, assunzione delle responsabilità, spegnere il televisore, uccidere la madre. Non pensare troppo alla cosa giusta ma pensare per lo meno a qualcosa. Shaun viene lasciato da Liz, perché? Perché prima di alzarsi dal suo divano non era capace nemmeno di prenotare ad un ristorante. Shaun è uno che ci tiene agli affetti e che per tentare di gestirli tutti non riesce a fare altro che lasciarsi trasportare dagli eventi. Quando questi precipitano ecco che si trasforma in eroe. Consumato veterano con la benda rossa stile Chris Walk ne Il cacciatore. Ora si può non credere nella televisione, ora si può urlare in faccia al migliore amico che sta rovinando sé e gli altri, ora si può sopportare un rifiuto, fucilare la madre. Shaun non è un duro! Ma è buono, non farebbe mai soffrire nessuno. Si salva per questo? Tutt’altro, si salva perché riesce a fare della sua bontà una potenza. Fallimentare? Sì d’accordo non è questo il punto! Siamo invece all’illuminazione zen degli alberi e le montagne. Prima dell’illuminazione il divano era solo un divano e una birra solo una birra, durante la trasformazione il divano non era più un divano e la birra non era più birra. Adesso per lo Shaun illuminato il divano può tornare ad essere divano e la birra, birra.

II. Noi e gli altri?  

Dove sono andati a finire gli Zombi di Romero, le placide schiere di immigrati logorati dall'apartheid e dal lavoro nero? Dov’è la differenza in città? Crisi di indifferenziazione. Con Shaun of the Dead c’è solo un discrimine tra il consumatore medio e lo zombi e questo discrimine è la sottile linea arbitraria tracciata dalla rappresentazione. È solo la scena, la visione, ciò che distingue il non vivo dal non morto. Il discrimine dato appunto da ciò che non è mai da ciò che è! Per passare attraverso le stupide schiere del male il manipolo di non-eroi deve muoversi come loro, deve essere loro. Il passaggio, il gioco di specchi  è cruciale in questo film (che, ripetiamo, non è una parodia e non è demenziale). Siamo fuori dall’alterità in questo freddo, globalizzato Occidente. Il manicheismo della vita rende impossibile una qualsiasi morale: siamo di fronte all’impossibilità della scelta. Amarissimo. Non c’è più Clint o Rambo: c’è Shaun dei morti, uno tra i morti. Non ci sono più buoni e cattivi, solo non vivi e non morti.

III. Rivoluzione e arte del riciclo.

Il finale è una pura rivelazione. Nell’apocalisse dell’homo œconomicus anche il non morto può essere riciclato. Come ha potuto dire il giornalista di sparare alla testa? Questi dinoccolati e stupidi cannibali sono eccezionali per i lavori ripetitivi, manuali, inutili. Sono mariti che non cambiano, perché bestie erano e bestie restano (anzi magari acquistano qualche voglia in più). Sono anche amici, all’occorrenza, dai quali non possiamo staccarci. SI PUÒ FARE! diceva il dott. Frankenstin. E anche quindi: come abbiamo potuto credere di volerli eliminare? Rivoluzione: dalla non-vita della ripetizione, dopo la fine del mondo si ritorna esattamente al punto di partenza. Tutto ciò che viene prodotto deve essere rimasticato e riutilizzato. Uno stravolgimento per ripristinare lo status quo, che come diceva Hannah Arendt è il nome politico del fantasma.
Infine dò un’occhiata all’ovvio: l’ovvio va sempre setacciato al fondo, come con il barattolo di cioccolata.
Qual è la cosa che più spaventa del non-morto se non il fatto che esso, una volta ucciso, riviva?
Non è il suo ritornare a muoversi che ci scuote l’anima? Non c’è cosa più sacra e al contempo blasfema dello Zombi…
Ma non diciamo la parola con Z!


[1] In Italiano il film è tradotto «L’alba dei morti dementi». Ancora una volta peccando, come sempre le traduzioni dei titoli, poiché si sposta l’accento sul carattere demenziale. Per preservare il gioco di parole shaun/dawn (Dawn of the dead, l’alba dei morti viventi di Romero) avremmo fatto meglio a tradurlo: Albano dei morti viventi.
[2] Nome che indica “la roba dei bianchi morti” ovvero l’abbigliamento che doniamo alla chiesa o alle associazioni umanitarie e che viene venduto in Africa (Mitumba - The Second Hand Road, documentario di Raffaele Brunetti).

Marina Nardone

domenica 7 novembre 2010

La supernova Mainländer e la cadaverizzazione di Dio


Philipp Mainländer è un filosofo dell'Ottocento di cui, nella storia, non rimane quasi traccia. Questa quasi totale scomparsa - quasi - non è del resto assolutamente casuale. Mainländer appare, in fondo, nell'atto stesso della sua scomparsa. In verità, egli è una delle figure più affascinanti del sottobosco geisterphilosophich della storia della filosofia. Una nullità, al limite. Apoteosi della nullificazione.
Alcune indicazioni bibliografiche (ed invero archeologiche) sul suo conto: a lui Franco Volpi dedica alcune pagine del suo Il nichilismo (Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 40-42), raccogliendo egli stesso le poche informazioni che riporta da Müller-Seyfarth (a cura di), «Die modernen Pessimisten als décadents». Von Nietzsche zu Horstmann. Texte zur Rezeptionsgeschichte von Philipp Mainländers Philosophie der Erlösung, Königshausen & Neumann, Würtzburg 1993; Id., Metaphysik der Entropie, Van Brennen, Berlin 2000 (di cui Volpi ha curato la prefazione); G. Invernizzi, Il pessimismo tedesco dell'Ottocento. Schopenhauer, Hartmann, Bahnsen e Mainländer e i loro avversari, La Nuova Italia, Firenze 1994; e M. Pauen, Pessimismus. Geschichtsphilosophie, Metaphysik und Moderne von Nierzsche bis Spengler, Akademie, Berlin 1997.
La sua principale opera, invece, è Die Philosophie der Erlösung, del 1876. L'impatto di quest'opera è pressocché nullo sulla storia della filosofia, ma un po' più che nullo: il 6 dicembre 1876 Nietzsche scriveva da Sorrento (a Overbeck) che, dopo aver molto letto Voltaire, sarebbe stata la volta di Mainländer. Cosa vi abbia letto il buon Nietzsche in quel testo, è presto detto: niente poco di meno che la tesi della "morte di Dio". Ecco qui: quasi tutto Nietzsche è racchiuso in una fugace piega di nullità - Mainländer! (Si badi bene: quasi).
Di cosa si tratta? - Mainländer è un appassionato lettore di Schopenhauer e Leopardi (entrambi scoperti durante il soggiorno a Napoli, dove visse tra il 1858 e il 1863 - significativo: "vedi Napoli e poi muori", anche Jim Morrison lo aveva annotato, come a dire che Napoli è città uterina, omphalos col mondo ctonio, soglia dell'Ade, valvola di riflessione tanatologica) che, prendendo a modello Il mondo come volontà e rappresentazione, fonda il suo pessimismo su un principio ontologico molto semplice: «il non essere è preferibile all'essere». Come Schopenhauer, egli ritiene che non ci è dato vivere se non in un mondo di apparenze, la "cosa in sé" kantianamente sfuggendoci in maniera costitutiva. La cosa interessante, però, è che, mentre per Schopenhauer la cosa in sé è identificabile con la Wille zum Leben, per Mainländer essa è identificabile con la Wille zum Tode - la volontà di morte sarebbe, secondo Mainländer, il principio, individuale, che sta alla base di tutti gli esseri. Di tutti gli esseri - Dio compreso.
Ecco l'apoteosi del nichilismo, l'ipotesi teologico-metafisica proposta da Mainländer: «La volontà di morte che inerisce a tutto l'essere dipende dal fatto che la sostanza divina - concetto che egli riprende da Spinoza - trapassa dalla sua originaria unità trascendente alla pluralità immanente del mondo, il quale, in tale trapasso, ha la propria genesi» (F. Volpi, op. cit., p. 41).
In altre parole, ovvero con le stesse parole di Mainländer: «Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo».
Abbiamo così un perfetto sconosciuto che, prima di Nietzsche, e forse molto più profondamente, aveva intuito l'assurda vertigine del nulla cosmico. Nichilismo assoluto. Pura genialità: la vita del mondo non è altro che il riflesso della morte di Dio. Più ancora: il mondo, il cosmo, il creato, non sono frutto di creazione personale di Dio, ma effetto della sua cadaverizzazione. Ecco: ci muoviamo tra i resti sparsi del cadavere in decomposizione di Dio. E la materia non è null'altro che la carne morta, il soma cadaverico di Dio.
Ma di più: la cadaverizzazione di Dio è in verità un'autocadaverizzazione, poiché appunto Dio stesso non può che seguire il principio universale (individuale) della Wille zum Tode. Egli trapassa, quindi, per seguire il suo divino impulso alla morte. In verità, l'essenza del principio divino ci è preclusa costitutivamente, secondo Mainländer, ma da un punto di vista regolativo possiamo considerare l'origine del mondo «come se essa fosse il risultato di un atto di volontà motivato»: Dio segue il suo impulso a dissolversi nell'immanenza del mondo, la sua tomba, la sua negazione, puro non essere. Non vi è dunque, a rigor di logica, una genesi, ma solo più una morte, e l'assurda volontà di Dio di farsi nulla. Ciò che si manifesta nel mondo, nel momento stesso in cui si manifesta, manifesta in fin dei conti questa stessa volontà di autoannullamento (Selbst-ver-nicht-ung). Ogni cosa è come una supernova, che si mostra nel momento stesso in cui è scomparsa (o meglio: il cui apparire è solo più il fantasma della sua scomparsa, perduta già in milioni - miliardi - d'anni luce nelle profondità abissali del nulla cosmico). Vertigine estrema d'una «metafisica dell'entropia», da cui Mainländer fa scaturire tutte le conseguenze del suo sistema filosofico: la storia è sottoposta alla legge universale del dolore, la sua etica sostiene la massima della verginità e «raccomanda il suicidio come radicale negazione della volontà» (F. Volpi, op. cit., p. 42) per ottenere infine la redenzione (Erlösung: as-soluzione, dis-soluzione, anche, evidentemente) dall'esistenza.
E così, nella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile del 1876, appena ricevuta la prima copia della sua opera, il buon Mainländer pensò bene di realizzare il suo scherzo estremo, di compiere l'essenza stessa della supernova: scomparire, nel momento stesso in cui appariva il frutto del suo parto - la sua opera come la sua stessa autocadaverizzazione.
In questo gesto fu seguito nel 1891 da Minna, sua sorella, che con lui aveva composto il dramma Gli ultimi Hohenstaufen, e che aveva pubblicato nel 1886 alcuni saggi del fratello come secondo volume dell'Erlösung.
Si compie così, definitivamente, l'atto di scomparsa del genio che riproduce, facendosi egli stesso, il gesto di Dio, secondo una consequenzialità che, bisogna ammetterlo, ha dell'eroico.
In questa vertigine del pensiero è possibile dunque ravvisare tutto Nietzsche? Quasi - quasi: certo, bisogna ammettere che c'è qualcosa di estremo in questo pensatore che indurrebbe a ridimensionare lo stesso Nietzsche dell'eterno ritorno. Sennonché il buon Nietzsche, a differenza di Mainländer, nota subito che qui si dà uno scacco: un'ingenuità - fatale, invero - che, alla fin fine, lascia davvero il «teutonico "persuaditor di morte"» (F. Volpi, op. cit., p. 43) sull'orlo silente della nullità. Nietzsche vi intravede subito, come per Schopenhauer, la Wille zur Macht di un decadente, la volontà di una potenza malata, il nichilismo debole di un pensatore insano che cerca la morte, infine, per disperata affermazione del proprio ego.
Mainländer ha indubbiamente spinto all'estremo la propria capacità di pensare e di guardare nell'abisso. Ma quando si va a questi estremi, bisogna rigorosamente essere estremi fino in fondo. È proprio l'individualismo della sua Wille zum Tode a fungere da spia per cogliere l'ingenuità di Mainländer (e forse si può avanzare l'ipotesi che fu proprio questa ingenuità a mettere in guardia Nietzsche nei confronti dello stesso Schopenhauer).
Il quale indubbiamente va posto tra gli antesignani della Geisterphilosophie, per l'acume della sua riflessione. Ma, come sempre accade in ambito geistlich, rovesciato. Alla fin fine, benché egli professi un "ateismo scientifico", è proprio la religiosità del suo impianto a farlo scivolare: egli, in fondo, non fa che professare una fede al contrario, una fede nella morte, assolutamente speculare alla fede nella vita eterna del vecchio cristianesimo. Egli vuole, alla fine, «guardare negli occhi il Nulla assoluto». Pura mistica nichilista. Ovvero estremo compimento di quella decadenza del nichilismo che non a torto Nietzsche ravvisava all'origine stessa del cristianesimo - della volontà di potenza del cristiano.
In fondo, Mainländer dice "nulla", ma ha in mente il Dio dei cristiani: dice "nulla" ma ha in mente una volontà, un immane ego trascendentale che trascendendo per volontà individuale si immanentizza nel proprio cadavere. A rigor di logica (e bisogna essere rigorosissimi su tali incerti terreni) bisogna ammettere che non si può guardare negli occhi il Nulla assoluto: per il semplice fatto che il Nulla non è e non può essere. Non c'è proprio un bel nulla da poter guardare negli occhi: né un Dio, né tanto meno un Nulla.
E tutto questo ci porta a riflettere un momento sulla Geisterphilosophie e, per inciso, a sottolinearne tutto il portato gioioso: la Geisterphilosophie potrebbe facilmente essere fraintesa per una "filosofia della morte", per una italiana versione del nichilismo mainländeriano. Tutt'altro, invece: la Geisterphilosophie attua piuttosto un raggiro tattico, proprio onde evitare di incrociar lo sguardo con simili chimere del Nulla, proprio onde aggirare lo scacco metafisico. Né professa fedi nichilistiche. Né si ferma alla semplice vertigine metafisica, ma la rilancia nel vortice ermeneutico del rovescio della riflessione geisterphilosophich.
Ecco: perché fermarsi alla morte di Dio? Perché fermarsi alla semplice ipotesi di Dio? Ancor più decisamente: perché ipotizzare un Dio entificato nella volontà - sia pur volontà di morte? Andiamo fino in fondo, piuttosto, fino a sfondare questa vuota membrana del Nulla. Non solleviamo più alcun velo di Maya. Piuttosto, se proprio dobbiamo, prendiamo Maya alle spalle. Ecco allora: la "genesi" del mondo è la cadaverizzazione del nulla. Non di Dio. Nemmeno del Nulla. Il cosmo è piuttosto la cadaverizzazione di nulla. Esso non è che il fantasma del nulla originario, Big Bang di un vuoto assoluto, "uovo cosmico" racchiuso in un punto di vuoto. Ma questa cadaverizzazione del nulla è appunto null'altro che il rovescio della nullificazione. L'Essere non è null'altro che il fantasma del Nulla. Meglio: l'essere è il fantasma di nulla. Come supernove, le cose appaiono come fantasmi della propria scomparsa.
Fantasma della propria dissolvenza - s'intende tutto il senso di questo rovescio?...

Diego Rossi

giovedì 4 novembre 2010

Considerazioni su "Dawn of the Dead"


Bisogna ancora sottolineare il portato politico del film proposto nella seconda proiezione fantasmatica del laboratorio cinematografico di Geisterphilosophie (Dawn of the Dead di Romero). E svilupparne un'ermeneutica geisterphilosophich che ne interpelli il fantasma - il fantasma, cioè, dello zombie (ché non dobbiamo dimenticare che di questo si tratta), così come è convocato per mezzo del rituale evocativo imbastito da Romero stesso, che qui si tratta di appellare (o di ri-evocare in appello?).
Ordunque, schematizzando molto e riducendo all'osso le questioni, per evitare di appesantire ulteriormente la riflessione con il ripetere per intero il ciclo ermeneutico della Geisterphilosophie - che qui si dà per accordato, secondo le indicazioni già fornite nel Manifesto di fondazione della Geisterphilosophie, nella postilla al manifesto e soprattutto nel primo report del laboratorio (nonché, in verità, nell'impianto di moltissime riflessioni sparse qua e là nell'archivio), possiamo individuare almeno tre nuclei da estrinsecare, a partire dal report #2 del laboratorio (che qui, parimenti, si assume interamente come dato).
1. In primo luogo, si tratta di eviscerare tutta la forza dello scontro culturale che è sotteso al film. Lo zombie, in Romero - e per la prima volta, probabilmente nella storia del cinema - assume il ruolo fondamentale che ricoprirà poi canonicamente nell'immaginario horror della nostra cultura: ecco il fantasma dell'altro. Si noti che tutto l'inizio, abbandonati gli studi televisivi (per inciso, la televisione è presenza costante e significativa nell'intera pellicola), si svolge nel condominio-dormitorio di portoricani, dove è ferocemente sottolineata la lotta tra vivi e morti ovvero tra bianchi e sporchi negri (Miguelito). E del resto è l'ambiente sincretistico del cristianesimo-vodoo del vecchio prete (celebre la sua battuta: «Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere. Altrimenti si perde la guerra») il terreno di coltura ideale di questo strano morbo che d'improvviso irrompe sulla scena. Ecco: l'irruzione dei fantasmi della cultura americana, il fantasma dell'Altro - negro, portoricano, straccione etc. - che bussa alle porte del megastore per godere di quella non-vita che lo abbaglia e lo irretisce.
Effetto di cadaverizzazione dell'alterità - ecco lo zombie - attraverso la presa, invero ferrea, sull'anima del colonizzato. Per intenderci: Fanon - la violenza dei francesi in Algeria fu in primo luogo la violenza psicologica di un popolo che ha inoculato la sua anima, ovverosia la sua cultura, nel corpo cadaverico del vinto. Vogliamo l'anima, diceva Mably - quell'anima nella quale Foucault ravvisò non a torto la principale prigione del corpo.
2. Lo scontro tra non-morte non-vita, riflesso di un tale scontro culturale, mostra in fondo tutta la posta in gioco in questa conflittualità surreale: i non-morti che bussano alla porta alla fine non hanno nulla di cui godere. Certo, essi vengono attratti dall'odore della vita che intrasentono nello stile di vita americano, che subodorano celato in questo tempio del consumo a vetri antiproiettili che è l'ipermercato (iper-mercato: iperbole della teoria del mercato).
Ma: anche quando i non-morti sfondano, conquistano infine il mega-store, ecco che essi non hanno nulla di meglio da fare che aggirarsi nel ricordo di ciò che facevano in vita - ovvero imitare come colonizzati senz'anima (cadaveri rianimatiselvaggi umanizzati) il (non)vivo americano.
Non-vivo: ecco l'americano che si rifugia nella grassa placenta dell'iperconsumismo di mercato. Chiusura, questa, che crea automaticamente (involontariamente?) il desiderio dell'altro, quel desiderio che l'altro è forzato a provare allorquando gli diciamo "no, tu non puoi giocare!". (Lasciami entrare è il titolo di un recente film, molto sublime, sui vampiri). Desiderio però che rimane inappagato, necessariamente (l'abbiamo provata tutti quella frustrazione di giocare inappagati con chi non ci vuole fra i piedi - no?).
(Piccola nota al margine, a proposito dell'economia declinata in chiave geisterphilosophich come nostalgia: la teoria di mercato prevede, com'è noto, alcuni assiomi fondamentali affinché si possa parlare di mercato perfettamente concorrenziale. Tra questi, sorprendentemente - ma mica tanto - spicca l'assioma di non saziabilità, ovverosia si suppone che un consumatore, all'occorrenza, preferirà sempre consumare una quantità maggiore di una data merce, la quale di passaggio ricordiamo che - sempre all'interno della teoria di mercato - deve essere supposta perfettamente omogenea. Senza dilungarci troppo su questioni squisitamente tecniche, sono proprio alcune delle condizioni che nell'iper-mercato di Romero vengono "accidentalmente" realizzate - che non sia un effetto dell'economizzazione della vita questo strano morbo che prende d'improvviso ad attanagliare la vita di consumatori ridotti a zombie: homo œconomicus = homo cadavericus? Si comprende, allora, come nella Geisterphilosophie si tratterà più solo di una nostalgia, un male per l'oikos perduto, la terra, la Terra - la vita. Ma su questi punti ci sarà modo di tornare in altra sede.)
Dunque si diceva: questo desiderio rimarrà inappagabile, in quanto innanzitutto è proprio l'effetto della barricata dei vivi a generare il tentativo di penetrarne la barriera. Ma l'insaziabilità è anche quella stessa che si riscontra in vita. È la vita dei vivi di qua dalla barricata, alla fin fine, a non funzionare.
Anzi, la non-vita condotta dai rifugiati è esattamente speculare alla non-morte di quelli di là. Scena mirabile: lo specchiarsi stolido e ingenuo, al limite tenero, dello zombie e della ragazza separati dalla vetrina del negozio, rincretinimento pietoso della ricca anima bella di fronta al lavavetri a naso in sù. Ma è pur sempre un reciproco specchiarsi: ai non-vivi di qua non resta alla fine che aggirarsi indolenti nell'iper-mercato a memoria di ciò che facevano in vita, o meglio a memoria di ciò che presuppongono sia il desiderio d'aggirarsi indolente dello zombie. C'è insomma in gioco tutta la dialettica del desiderio per cui l'imitato si ritrova ad imitare ciò che suppone l'imitante vorrebbe imitare pur di stringere fra le mani l'ambito desiderio d'esser imitato. Il non-vivo si ritrova schiavo della stessa non-vita nella quale si rifugia per arginare costantemente la non-morte - o paura della morte. O paura dell'Altro.
3. Non a caso, gli unici superstiti tra i rifugiati sono il negro e la donna - i grandi rifiutati, i fantasmi di sempre che albergano al cuore della società americana, i fantasmi di quell'Altro felicemente ricacciato fuori dall'imponente giostra dell'ipermercato - ricacciati cioè da quel mercato iperboreo o paradiso artificiale che è il paese di cuccagna del consumatore cadaverico.
Ecco allora, all'interpellazione geisterphilosophich, l'accusa silente che lo zombie rivolge minaccioso allo spettatore teoretico. Allo specchio fantasmatico, rifugiato di qua dalla linea, egli si sorprende non-morto consumatore, nell'assillo che lo zombie ambisca non ad altro che a "fare ciò che era abituato a fare in vita", mostrando il rovescio di quella non-vita che tutti conoscono bene quando, insoddisfatti, insaziati, riemergono dalle fauci fotosensibili del vetro iper-consumistico.
Alla fine, non c'è che da sperare di esser ricacciati dalla folla solitaria di individui affamati di nulla, come negri, come donne incinte, corpi estranei rigettati dagli anti-corpi del corpo macilento e decomposto del cadavere del mondo ridotto a mercato.

Diego Rossi

lunedì 1 novembre 2010

Gli zombie intorno a noi


Non ci accorgiamo delle cose intorno a noi per ignoranza. La percezione che abbiamo delle cose è direttamente proporzionale alla conoscenza che abbiamo di esse. Appena studiamo qualcosa, ce ne interessiamo, entra a far parte della nostra vita, improvvisamente la vediamo spuntare in articoli di giornale, passaggi in radio, servizi in televisione o in semplici discorsi tra la gente. La cosa, ora conosciuta, sarebbe comunque stata presente in quegli articoli di giornale, passaggi in radio, servizi in tv, solo che prima non ce ne saremmo accorti, non l’avremmo percepita, sarebbe sfilata via,  lontana, da noi. Questo porterebbe già ad una prima riflessione: da quante cose “non-vive” (l’altra faccia della non-morte) siamo circondati? Ma non è questo l’argomento su cui voglio soffermarmi. Perciò torniamo a noi. La relazione tra percezione e conoscenza che ho cercato di spiegare è provata proprio da quanto sta accadendo nel rapporto tra me e la non-morte in questi giorni. Prima del nostro cineforum l’argomento non-morte per me non esisteva e le sue figure erano solo vaghissime espressioni di una cinematografia di terz’ordine. Adesso mi vedo spuntare la non-morte – zombi, vampiri – ovunque, e ciò accade non metaforicamente, ma concretamente: sto notando che la non-morte, e con essa i suoi termini e le sue figure, è argomento assolutamente presente nella nostra cultura e nella sua espressione dominante: i mezzi di comunicazione. Continuamente mi accade, come sopra, di leggere articoli di giornale o di ascoltare passaggi in radio e servizi in tv intrisi di non-morte. Proprio vedendo un servizio del Tg2, l’altra sera, la mia fervida immaginazione ha avuto un sussulto. Il servizio riguardava il “denaro zombi”-  l’espressione usata è stata proprio questa – cioè quel denaro che alcuni morti continuano a produrre a beneficio dei loro eredi. Indovinate un po’ chi era il non-morto più vivo, presente e ricco di tutti? Ovviamente Michael Jackson. Dico ovviamente, perché in quella locuzione è racchiusa tutta la mia folle riflessione che, tra parentesi, comincia a darmi una vaga idea del perché, pur non amando in modo particolare Michael Jackson, appena saputo l’argomento del cineforum abbia caldeggiato con tanto entusiasmo il video “Thriller” come colonna sonora portante dei nostri film. Evidentemente dietro, da qualche parte, e del tutto inconsciamente, già esisteva una sottile linea riflessiva che ci univa.
Durante il dibattito seguito alla proiezione di Zombi / Dawn of the Dead  di Romero, agganciandomi all’idea comune che in realtà gli zombi fossimo noi, avevo avanzato l’ipotesi che gli zombi non fossero altro che una nostra produzione o, meglio ancora, una nostra generazione. L’idea dell’esistenza di qualcosa come il “denaro zombi”, conferma l’ipotesi, in quanto inevitabile prodotto generato da vivi/morti/non-morti. Cosa potrebbero produrre degli zombi in questa società se non “denaro-zombi”? Il discorso si fa però interessante se lo si lega alla figura di Michael Jackson. Lui, come tutti noi, è uno zombi. Se però non ci limitiamo a questo e prendiamo in considerazione la sua vita e, soprattutto, le sue trasformazioni fisiche in vita, forse scopriamo una cosa importante e, allo stesso tempo, sconcertante: Michael Jackson è il primo tra gli zombi ad aver infranto il confine tra vita e morte. Egli è il primo zombi che passa, che si materializza ancora in vita, cioè che non ha aspettato di dover morire per trasformarsi. A questo punto le sue banali giustificazioni, relative allo schiarirsi della sua pelle e al cambiamento dei  tratti somatici, assumono un valore diverso: direi di verità. Egli continuava a sostenere di essere vittima di una strana malattia, forse riconducibile ad una gravissima forma di vitiligine, che lo stava trasformando. Immaginiamo che fosse vero: era uno zombi che si stava manifestando già prima, al di qua, della linea di confine tra vita e morte. Dunque la chirurgia estetica non c’entrava proprio niente.
Ma della sua condizione, del significato della sua trasformazione era consapevole? O ne era semplicemente vittima? Si rendeva conto di cosa fosse? E di cosa stesse diventando? Immaginiamo per un momento di si.
Lo zombi aveva paura! Paura soprattutto di cosa potessero fargli i vivi. Dava pertanto delle risposte “plausibili” per tenere nascosto il suo stigma, la sua diversità; altrimenti i vivi lo avrebbero sbranato, studiato, vivisezionato e non solo attraverso i media; in quel caso la chirurgia ci sarebbe entrata, eccome! Consapevole, lo zombi aveva paura anche dei virus e delle malattie degli ancora-vivi. Ecco, così, spiegate anche le sue maschere e la camera iperbarica. Mettiamo il caso che invece la sua consapevolezza fosse pervasa dal rimorso, dal senso di colpa, in quanto il passaggio da vivo-zombi a zombi non era stato ancora completato. Egli si sentiva ancora appartenente al gruppo dei vivi; non aveva però il coraggio di confessarlo apertamente, magari per paura delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Decide, quindi, come spesso accade, di produrre degli indizi che possano condurre alla sua colpevolezza. Gira il video “Thriller”, avvertendo, così, l’umanità intera che egli si sta trasformando in uno zombi, nella speranza che ci sia ancora la possibilità di fermare, anche con il suo sacrificio, l’epidemia di cui egli è il primo caso. Ovviamente nessuno lo prende sul serio…
Terza ipotesi. Ormai si sente più uno zombi che uno stupido vivo-zombi. Sicuro di sé, e della stupidità dell’umanità, si diverte a prendersi gioco di noi. Gira il video, consapevole che non saremmo mai stati in grado di comprendere il messaggio e che lo avremmo preso semplicemente per un video musicale, rassicurati nelle nostre non-vite esattamente come la ragazzina nel video. E così accade… mentre egli ci regala un sardonico, mefistofelico sorriso. In attesa degli altri… 
Da allora sono passati trent’anni. Mi guardo intorno, sono passati trent’anni…  ed è forse per questo che adesso comincio a vederli…

Marco Restucci

Zombi


Zombi (Dawn of the Dead), di G. Romero, colore, 118 min., USA 1978.


Lo Zombie di Romero non è solo un automa, una volontà che cammina privo di consapevolezza con lo sguardo puntato verso il nulla. Ma una creatura, se così la si può definire, che ha un’evoluzione, un cambiamento portatogli dalla realtà esterna. Subisce la violenza dell’uomo, le sue beffe, le sue torte in faccia. Diventa il suo tiro da bersaglio in un’improvvisata gara campestre tra una bistecca e una lattina di birra vuota lanciata in aria.
Gli Zombie sono oggetto di scherno e di rapina. Vengono privati anche di quella poca umanità che mantengono.  Memorabile è la scena della Signora – Zombie defraudata dei suoi gioielli.
Sono condannati due volte. Prima alla Non-Morte, a questa specie di Limbo in cui sono costretti a sostare e per cui cercano sempre l’uomo. Non posso sentirne l’odore o il rumore, che accorrono e lo accerchiano perché ne bramano la carne.
Interessante è la versione di Romero su questo loro sostare. Il regista, riprendendo la religione vodoo, farà dire ad uno dei personaggi umani: “Quando non ci sarà più posto all’Inferno, i morti cammineranno sulla Terra!”.
La seconda condanna arriva dall’uomo, dall’essere che fino a poco fa erano e che ora li disprezza. Passa il momento della paura e dell’affezione verso queste creature che potevano essere familiari o amici. Si scopre che spappolandogli il cervello, vengono eliminati e subentra il disprezzo verso qualcosa che è estraneo, che non si conosce e che li sta invadendo.
Nelle prime scene del film, c’è il rifiuto e lo sdegno verso la proposta dello scienziato di eliminare gli Zombie. Ma questi cominciano a moltiplicarsi, ad azzannare l’essere umano e allora si cambia musica. Tra l’altro, curata da Dario Argento con il gruppo The Goblin, che a questo punto fanno partire la carica. Così si sottolinea la superiorità che l’uomo prova rispetto allo Zombie, a cui la morte non viene donata per trovare pace.
Così anche loro si trasformano. Scompare lo Zombie – Miguelito che sembra voler abbracciare la sua vittima prima di morderla e compaiono orde di esseri pronti a sbudellare, staccare e contendersi pezzi di carne.
Gli Zombie sono contagiati dalla violenza degli uomini che a loro volta ricevono la Non-Morte.
Ma non c’è nessuno per cui patteggiare. Non si riesce a scegliere tra l’una e l’altra parte perché non c’è un bene o un male tra cui scegliere.
I protagonisti umani non fanno nulla per farsi piacere. Uccidono con indifferenza e si impossessano di tutto ciò che trovano.
Non a caso si rifugiano in un Centro Commerciale, l’emblema del consumismo, dove è possibile comprare tutto, soprattutto l’inutile. La rappresentazione del modello americano, oramai trapiantato in Europa, diventa la Roccaforte, il luogo sicuro in cui chiudersi e in cui si ha l’apparenza di essere felici. Altra scena significativa è quella in cui due personaggi umani, appena arrivati al Centro, si guardano negli occhi e senza pensare alla loro sicurezza e a quella degli altri due compagni, presi dall’adrenalina, decidono di darsi “al barbaro shopping”. È l’occasione giusta per avere ciò che normalmente non posso permettersi di comprare. Sembra quasi che vivano una vita che non gli appartiene e per cui provano invidia verso chi la poteva condurre.
Allo stesso tempo, si affaccia la Non-Vita.
Alla Non-Morte degli Zombie si alterna la Non-Vita degli uomini avvolti dalla noia e dal vuoto.
L’angoscia appare sui volti dei personaggi umani, immobili, in posizioni plastiche e silenziose. Stavolta sono loro ad avere lo sguardo perso.
Finché non arriva un altro gruppo di uomini, veri razziatori, che minacciano la Roccaforte. La solidarietà non trova spazio, a differenza del sentimento di possesso su qualcosa di cui ci si è impadroniti per primi.
Ma la domanda che alleggia tra tutti non viene posta direttamente, eppure trova lo stesso risposta. Gli Zombie non possono fare a meno di mordere un essere umano quando lo incontrano perché quello che mordono è ciò che non hanno, la Vita!

Gabriella Galbiati

martedì 12 ottobre 2010

Planet Terror


Grindhouse - Planet Terror di R. Rodriguez, colore, 105 min., USA 2007.


La non-morte è albergata da un profluvio di figure archetipiche che si rilanciano nelle diverse tradizioni e culture. Altrove (LDL - Undead) si è detto della possibilità di distinguere, al suo interno, due principali forme o categorie di manifestazione del non-morto: lo spettrale e il cadaverico.
Allo spettrale appartengono: il fantasma, lo spettro, lo spirito, la banshee, il poltergeist, l'apparizione, il fuoco fatuo, la presenza (ovvero manifestazione), l'incubo (demone), la possessione, l'anima (del morto - il sogno, la smorfia), il doppelgänger, l'ombra.
Al cadaverico: lo zombie, lo scheletro, la mummia, il lich, il revenant, il ghoul, il nosferatu, il costrutto (Frankenstein), il vampiro.
Tra queste vi sono alcune figure particolari, al limite improprie: i doppelgänger sono copie spettrali di una persona vivente, dunque fantasmi, ma non necessariamente non-morti; il fuoco fatuo è un fenomeno, più che manifestazione o presenza fantasmatica (è un reale fantasmatico); l'incubo è un demone ma che si presenta come fantasma. Ed in verità tali figure liminari sarebbero forse altrettanto degne d'analisi che non le canoniche e ben definite, come lo zombie o lo spettro, poiché attestano di una profondità semantica della non-morte che è ciò proprio che la rende luogo eminente della Geisterphilosophie.
Così anche il vampiro meriterebbe addirittura l'indicazione di una categoria a sé stante - il vampirico - laddove esso è manifestazione, più che di un cadavere ri-animato, di un corpo animato, per quanto ancora corpo cadaverico, e diviene dunque simbolo della non-morte stessa, ciò che segna la legatura tra spettrale e cadaverico e come uno specchio nel quale esso stesso, come è noto, non si riflette.
Ma proprio per mezzo di queste figure liminari si può notare un aspetto peculiare dell'ermeneutica geisterphilosophich (che si vedrà ritornare più volte): si deve infatti subito segnalare come nella Geisterphilosophie si tratti sempre di un continuo rovesciamento e, per così dire, di un gioco di specchi.
Le due categorie sembrano infatti distinte immediatamente e con ogni evidenza nel dualismo tra anima (lo spettrale) e corpo (il cadaverico). Ma subito qui si attua un ribaltamento di prospettiva e forse un doppio ribaltamento - o salto mortale che dir si voglia: in realtà è il fantasmatico a mostrare un corpo puro, svuotato di mente - mera presenza, appunto. Laddove il cadaverico è contraddistinto piuttosto dalla presenza di una volontà che interviene dall'esterno su un corpo morto. Il vampiro sarà appunto il personaggio chiave per sorprendere in atto un simile ribaltamento (e si vedrà, all'occorrenza, in che senso).
Per il momento, si tratta di andare a vedere come agisce la figura dello zombie nell'immaginario cinematografico - ciò che in qualche modo tasta il polso dell'immaginario collettivo dell'Occidente attuale.
Planet Terror è il film che fa il punto, per così dire, della cinematografia di serie B sul tema dello zombie, accogliendo in sé la vastissima e variegata gamma delle proposte filmiche - ed in particolare dei film d'exploitation degli anni Settanta, realizzando alla fine una sorta di canone, quasi un archetipo dello stereotipo di genere, o generico - in stile Il bello, il brutto e il cattivo di Leone, per intenderci.
È interessante allora registrare le reazioni suscitate da questo film, perché appunto per questa via è possibile intendere ciò che lo zombie in quanto tale ha da dirci, convocandolo quindi a testimoniare, secondo l'ermeneutica geisterphilosophich, circa l'accusa che viene mossa allo spettatore vivente in quanto vivente teoretico.
Ecco allora quanto emerso in questo primo incontro laboratoriale.
In prima istanza è quanto mai significativo che sia emersa sin da subito un'esigenza che si ricollega direttamente alle prime esperienze dell'attività laboratoriale del MIC: con il LAV, infatti, i primi laboratori e le prime riflessioni erano legate alla violenza, ciò che si è imposto subito come tema di riflessione e banco di prova della Geisterphilosophie che è emersa proprio a partire dalle esigenze filosofiche che i laboratori avevano contribuito ad individuare.
Un'esperienza significativa, tanto più in quanto ha contribuito a saggiare la Geisterphilosophie nel suo esercizio ermeneutico. Sicché si può immediatamente registrare una doppia violenza, ovvero una dualità della violenza.
In prima istanza, è lampante la violenza dello spettacolo. Lo spettatore ne è colpito ed in fondo offeso: il film (splatter) è di una violenza parossistica che fa evidentemente violenza allo spettatore. Se poi tale operazione susciti o meno un effetto estetico è necessariamente lasciato al gusto personale: che sia arte o meno, che sia bello o brutto, è una questione eminentemente estetica - dunque, come è noto, soggettiva. L'osservatore allora interroga il film sulla violenza, il quale ha ben poco da dire, se non reiterare la violenza ad un livello tale da esorcizzarla e, per così dire, normalizzarla - sicché pare che l'effetto voluto sia semplicemente quello di elevare la violenza ad un livello di spettacolarizzazione tale da assuefare il pubblico: effetto catartico della scena teatrale, ovvero della teoresi o-scena che, come è noto, nel cinema hollywoodiano raggiunge il suo climax spasmodico. L'effetto di tale anestetizzazione è evidentemente deplorevole e suscita immediata indignazione - riprovazione dello spettatore teoretico. E riprova della scadenza estetica del film: la teoresi inferisce il giudizio estetico - è cattivo gusto. All'interrogatorio, dunque, il film crolla seduta stante, ed il giudizio di colpevolezza è anticipato nell'ammissione.
Ma in una tale ammissione di colpevolezza ecco riecheggiano fantasmi. La sottile pellicola filmica ne è disturbata, e presto il concavo si rovescia nel convesso. Convocato ad av-vocare la causa fantasmatica, il Geisterphilosoph non può che chiamare in causa il soggetto teoretico - il pubblico spettatore - con-vocando lo zombie per interpellarlo a testimonianza della violenza o-scena. Ma si badi: come era d'aspettarsi, nel gesto d'evocazione si tratterà d'interpellare in verità non altri che il fantasma d'uno zombie - giacché appunto non abbiamo che una proiezione di fantasmi, un'istorìa fantasmagorica intramata in pellicola d'apparizione [definizione geistlich della cinematografia, nda]. In controluce, rispetto a tale fantasmagoria, abbiamo allora la possibilità di evocare il fantasma implicato in questa proiezione - nella fattispecie: lo zombie.
E ciò di cui testimonia questo spettro di zombie è immediatamente un atroce atto d'accusa nei confronti dello spettatore pubblico - la silenziosa accusa che sempre lo spettro rivolge nei confronti di chi lo guarda. E non c'è nemmeno da meravigliarsi: lo spettatore infatti non può che rimaner sorpreso nell'atto stesso di veder riflessa la propria violenza. È l'inquietudine (unheimlich fantasmatico) che sempre sorprende il soggetto osservante nella propria cosciente integrità e che gli rigetta in corpo il fantasma di ciò che ha rinnegato - negando ascolto al niente ch'egli è. Sicché ritorna dall'oltretomba haitiano lo spettro dello zombie ad agitar le fantasie notturne dell'incoscienza occidentale.
Ecco allora il rivolgimento ermeneutico: per cui, ad ascoltare la testimonianza evocata, la Geisterphilosophie avrà l'opportunità d'auscultare l'affezione di violenza dell'inconscio collettivo. Sicché si ritorce l'accusa nella violenza dello spettatore, cioè nella duplice violenza dell'interrogatorio teoretico e dell'altra, indefessa e stolida, dell'esteta passivo, anestetizzato nell'Erlebnis estetico che lo rende mero soggetto occhiuto ed osservante violenza. Si sorprende anestetizzato a sogghignare allo splatter di zombie scoppiati, posticcio effetto speciale del grindhouse adolescenziale, e a provare indifferenza per la morte violenta dell'alterità bellica nella contemporanea empatia patita per la morte sanguinolenta d'un cane - riflesso fantasmatico dell'atroce anestetizzazione di fronte allo spettacolo afghano (o vietnamita, per ricordare l'archeologia interiore del genere zombie) riattualizzata a piccole dosi d'orrore quotidiano e in pillole di compatimento pubblico per i nostri morti. Si sorprende, ancora, lo spettatore, ad agire quotidianamente la violenza telecronistica, ad assistere imberbe e passivo allo spettacolo quotidiano della morte del mondo - meglio: alla sua malattia tele-cronica ovvero alla sua non-morte. Ed infine assiste sorpreso, inebetito anche, all'inaccettabile spettacolo della propria morte.
Ed ecco allora il rifiuto: la violenza ultima del pubblico spettatore, ovvero soggetto teoretico, che nell'interrogatorio coercitivo (implacabile logica del terzo escluso) compie il tentativo disperato e patetico di richiudere, rianestetizzando a massicce dosi di DC2, la ferita aperta e condannare quindi all'inferno (rigettare di là dallo schermo) l'inquietante testimonianza fantasmatica del sé stesso cadaverico - zombie. Al limite, si suppone nella teoria dispiegata, quando il mondo sarà infine assalito dal suo fantasma - quando le voci di là saranno non oltre silenziabili - vi sarà pur sempre la possibilità di trovar rifugio turistico in quel di Cancun, con le spalle all'oceano a difendersi dall'orrore che avanza (ed il telefonino raggiungibile).
Questi i capi d'accusa che il monstrum cadaverico rivolge nella sua silenziosa testimonianza. In essa indubbiamente riecheggiano i fantasmi del Vietnam, i fantasmi di Bosnia e di Cecenia non che quelli iraqeni e afghani. Ma anche le vittime invisibili di una società che miete cadaveri per esporli al pubblico ludibrio: ovvero gli zombie di un cibernetico negromante (quindi neuromante) che ri-anima corpi morti per gettarli sul palcoscenico del mondo, per allestire eserciti non-morti per l'arrogante guerra al terrore (al rimorso terroristico dell'inconscio collettivo), o ancora per ammaestrare un pubblico non-morto di voraci consumatori.
Rigor mortis di una Guerra Fredda consumistica, combattuta da un esercito non-morto al servizio di morti viventi contro vivi morenti. Terno secco sulla ruota fantasmatica del gran carro del Mondo.
E questo è quanto.
Morituri salutant.

Diego Rossi

mercoledì 10 marzo 2010

Il vampiro - riflessioni al margine


Il vampiro è lo spettro della donna, del sesso, dell’amore.
Questa donna che cambia forma continuamente come la natura stessa, questa Lilith fatta di sangue e saliva che nella dimensione dell’incubo succhia il sangue invece di perderlo. Lilith che apre alla conoscenza.
Il vampiro è lo spettro della memoria come cultura che dissangua azioni e pensieri.
È la conoscenza di cui ci si nutre per morire.
Il vampiro è lo spettro di tutte quelle pratiche e quelle conoscenze che la scienza ha rigettato.
È lo spettro dell’irrazionale, della forza misteriosa della natura, del dio malvagio.
Quante luci tagliano il profilo di questo attore.
Ma il vampiro è anche la stessa scienza con la sua tecnica.
Il vampiro è la macchina da presa che toglie vita, il vampiro è lo spettatore che sugge la vita dal film.
La forza vitale, la forza sessuale è perduta, al suo posto c’è energia mentale, pietra magnetica.
Al posto della vita del corpo c’è la vita della mente con la morte del corpo. La mente dissangua. È  la mente che si nutre di energia vitale, di energia sessuale, e dà vita alle sue macchine.
Il vampiro si nutre della verginità della mente, di quella mente non ancora potenziata dalla cultura millenaria che l’umanità è costretta a portare sulle spalle. Di quella mente che ingenuamente chiede ancora come e perché, per che cosa, a quale causa e a quale fine. La mente di Candido.
“Se ne mangerete morirete” dice Dio. Se ne mangerete diverrete mortali.
Il vampiro è la donna che divora la sua verginità di corpo perdendo il primo sangue. È la donna che conosce, che scopre di essere fatta di sangue destinato a morire.
“Se ne berrete non morirete” dice il vampiro.
Il vampiro è la donna che non vuole morire e comincia il processo inverso affinché possa tornare immortale. Succhia il sangue per riavere la vita, per tornare in grazia, per tornare immortale. Lilith ritorna ad Eva in un morso che le riunifica. Ma non è possibile. E l’immortalità non è più quella del paradiso terrestre. Non è possibile tornare dalla morte. La vita stessa allora diventa morte e questo offre l’illusione dell’immortalità. Il vampiro è la punizione di Eva da parte di Adamo. Adamo uomo dell’occidente cattolico-vittoriano punisce la donna-peccatrice per averlo condannato alla mortalità, condannandola a preda del mostro immortale. È la donna che condanna con un morso proibito l’uomo e se stessa alla mortalità. E il suo spettro che morde condanna l’uomo e la donna all’immortalità. L’immortalità non è sostenibile.
Il sangue macchia, il sangue è la morte. La donna che sanguina partorisce la morte; è lei che è sterile e ha molti figli. La donna uccide, come la vita. Essa è il lato oscuro della vita nel suo ciclico divorarsi. Il vampiro uccide e il vampiro genera. Il vampiro toglie vita e il vampiro dà vita. Il ventre della donna genera e uccide. La donna comprende la morte come la vita. Distrugge e crea.
Le figure della non-morte, che rientrano nella tipologia del cadaverico, mangiano, mordono o uccidono. Queste azioni sono in una continuità stringente. Mangiare è uccidere. È la prima azione che l’uomo compie. Dare morte per vivere. Non puoi vivere senza uccidere, che sia un animale o un frutto. Il sangue testimonia di questo sacrificio alla continuazione del vivere.
Perché il mangiare è un atto sacro.
“Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo… Prendete e bevetene, tutti questo è il mio sangue…” Cristo si offre in olocausto al genere umano. Si lascia mangiare e bere. E Cristo ha sconfitto la morte. Cristo è il primo non-morto. Forse è il primo generatore di non morti, che ne mangiano il corpo e ne bevono il sangue per riconquistare l’immortalità. È in questa vita che l’immortalità ha senso e gli uomini consumatori sono immortali. Cristo conteneva già in sé l’anticristo, lo ha partorito nei secoli dentro gli uomini che dopo di lui sono venuti a colonizzare il pianeta. Cristo figlio dell’uomo padre di non morti.
Ma forse sarebbe più corretto chiamarli ritornanti. Il ritornante è materiale perché si nutre e si nutre in quanto è un corpo concreto e non spettrale. La materia cerca materia. Il corpo è indicato dall’atto di mangiare o comunque del succhiare. Forse il monoteismo genera ritornanti e il politeismo spettri. L’invisibile e l’inconoscibile assumono forme diverse per mostrarsi e rendersi conoscibili. La religione genera non morti nella misura in cui indaga la morte, aspira alla morte, commercia con la morte, colonizza la morte e la sconfigge. Ci riconosciamo non morti solo in virtù della fine del tempo del religioso. La religione del trascendente ha distrutto se stessa, distruggendo la sacralità del quotidiano. Trasformando gli uomini in consumatori di immortalità, in ritornanti. Trasformando il mistero in terreno di conquista, come hanno fatto con la spazio cosmico i laici.
Sapere di essere non morti significa sapere di vivere nell’illusione dell’immortalità, dell’infinito. Che cosa è immortale? Ciò che ha disconosciuto il morire. Mangiare il corpo e bere il sangue ci rende immortali. Zombi e vampiri sono gli spettri della religiosità primitiva che chiedono vendetta del monoteismo. Ricordano che non è possibile vincere la morte e la violenza. Che questa illusione ha creato solo altra morte e violenza. Questi spettri chiedono vendetta della cancellazione del dio malvagio, del volto crudele e assassino della vita stessa. Gli spettri chiedono vendetta di tutto ciò che è stato dimenticato, della molteplicità che è stata condannata, sacrificata all’uno, misconoscendo l’unità originaria, dell’occhio solitario di un Dio costruito dalla tecnica, rinnegando la grande madre universo e la nostra origine avvolta nel mistero. È per il dolore di questo mistero irrisolto della nostra origine che abbiamo inventato questo Dio e ad esso abbiamo sacrificato la nostra mortalità diventando ritornanti.

Stefania Nardone