sabato 11 dicembre 2010

Costrutto (Frankenstein)


Per costrutto, nel contesto di un Geisterbuch, è da intendersi un qualunque non-morto rianimato per effetto di una manipolazione artificiale di materiale cadaverico. Nella fattispecie, il costrutto per antonomasia è ovviamente la creatura di Frankenstein, laddove però è necessario, pur nella povertà immaginifica di figure simili della cultura popolare, ipotizzare per il Frankenstein solo più un caso particolare della categoria universale del genere “costrutto”, così come Dracula, vampiro per antonomasia, non è che un singolo individuo della famiglia fantasmatica del vampiro.
Boris Karloff nel "classico" Frankenstein del 1931
Bisogna tener presente, del resto, che se scarseggiano varietà non-morte di costrutti, questo vale unicamente nel quadro delle tradizioni immaginifiche popolari (e non è certo un caso che Frankenstein sia un prodotto della letteratura colta), laddove la fantasia individuale non ha alcun problema a produrre un’infinita gamma di variazioni possibili: i costrutti sono, in effetti, una categoria specifica in giochi di ruolo di successo come D&D, con caratteristiche ben definibili e individualizzanti. (Per certi versi, si potrebbe dare una lettura del gioco di ruolo come di una macchina post-moderna per la produzione di chimere fantastiche a partire da nuclei di materiale archetipico, bricolage virtuale di mitemi, o piuttosto anche di fantasemi: è alquanto significativo che la terza edizione del D&D abbia introdotto il concetto di “archetipo” all’interno delle regole del gioco come modello base di creazione di un determinato tipo di creature – dunque abbiamo l’archetipo “drago”, l’archetipo “non-morto”, l’archetipo “bestia magica” e così via, tra i quali figura, ovviamente, anche l’archetipo “costrutto”. Anche in questo settore dell’entertainment, evidentemente, si è imposto il modello rizomatico del capitalismo virtuale.)


Che cosa distingue, dunque, in via preliminare, un costrutto da altre forme di non-morti? In primo luogo, bisogna dire che il costrutto, come categoria generica, non ha niente a che fare con la non-morte: un costrutto è un artefatto, una macchina, un robot, dotato, più o meno, di una propria autonomia e consapevolezza. In estrema sintesi si può dire che un costrutto è un fantastico meccanismo animato. Come non-morto, ciò che differenzia un costrutto da altre forme di non-morti è il fatto che esso viene letteralmente costruito e rianimato per mezzo di un artificio – magico o pseudo-scientifico che sia – a partire da “materiale” inerte. Ovvero, nel costrutto cadaverico, il corpo organico è trattato come semplice materia prima da rianimare per effetto di un’operazione ingegneristica ovvero negromantica. Uno zombie, una mummia, un vampiro, uno scheletro e così via sono pur sempre resti rianimati di un corpo, di un individuo, di un ente unitario. Nel costrutto le spoglie mortali sono solo materiale grezzo.
È questo il motivo principale per cui si tende a non considerare Frankenstein alla stregua di un non-morto, ci si dimentica della sua natura essenzialmente cadaverica e anzi lo si legge innanzitutto e per lo più come un antesignano terrifico del robot. Tanto che Asimov dovette inventarsi le famose tre leggi della robotica per poter scrivere una fantascienza che fosse immune dalla “sindrome di Frankenstein”, di cui era affetta la letteratura fantastica degli anni ’20.
Sennonché, come scrive acutamente Caronia: «le tre famose "leggi della robotica", che [Asimov] elabora insieme a Campbell per tranquillizzare definitivamente l'uomo e convincerlo del carattere innocuo delle sue creazioni, sono uno strumento troppo riduttivo per affrontare un problema antropologico così complesso. È come se volessimo guarire un paziente dalla fobia dei ragni facendogli un pacato ragionamento sulla innocenza dei poveri aracnidi e sulla loro utilità per l'ecosistema»[1].
Veniamo per questa via al cuore geisterphilosophich del problema: qual è lo spettro che il costrutto ci agita davanti? Qual è l’orrore sublimato (sic) nella sindrome di Frankenstein?
È evidente infatti che un ragno non può far altro che metterci paura, esso è necessariamente il catalizzatore della nostra (aracno)fobia. L’ingenuità sta nell’osservazione teoretica per cui l’aracnide è (supposto) in sé innocente ed utile all’ecosistema. L’esempio di Caronia, in effetti, punta precisamente il dito sull’inefficacia dell’interrogatorio teoretico. L’ermeneutica geisterfilosofica, in questo caso, evocherebbe il fantasma del ragno onde testimoniare della nostra aracnofobia e custodirebbe il ragno in sé nel mistero fantasmatico della sua stessa in-apparenza.
Mutatis mutandis, il costrutto in sé non può che essere il catalizzatore della nostra sindrome di Frankenstein. Evochiamone il fantasma, ed avremo un testimone silente della nostra cadaverizzazione.
Questo vuol dire anche che è quanto mai limitativo interpretare il mostro di Frankenstein come un robot ante-litteram, e tanto più se si considera che il robot è esso stesso antecedente al Frankenstein, esso stesso, semmai, fantasma di qualcosa di completamente diverso da ciò che noi individuiamo come robot: macchina intelligente.
"Der Golem" del 1915
Parente stretto di Frankenstein è in verità il golem[2], che non ha nulla a che vedere (apparentemente) con la non-morte ma che è l’antesignano ebraico del robot. Si comprende subito che qui ci muoviamo su un terreno indefinito, dove si sovrappongono diversi campi dalle sfumature più o meno spettrali. Tuttavia le confusioni nascono – come quasi sempre accade – unicamente dalla volontà di discernimento: le idee chiare e distinte sono per l’appunto bubboni vivisezionati dal fascio vivo del fantasma del mondo, pertanto sono mossi da un criminale intento di necrofilia teoretica.
Cerchiamo allora di orientarci. Il golem, in primo luogo: si tratta di un gigante di argilla che, nella mitologia ebraica, può essere animato magicamente a partire dal Sépher Yetziràh, il libro esoterico più importante della tradizione ebraica. Si tratta dunque di una copia della divina creazione di Adamo ma, a differenza di Adamo, nessun mago può infondere un’anima nel golem, che rimarrà sempre solo un costrutto, per l’appunto, grezzo: il termine, infatti, sembra derivi da gelem, materia grezza, embrione, che nella Bibbia compare per indicare la “massa ancora priva di forma” che era Adamo prima di ricevere l’anima da Dio. Il golem poteva essere utilizzato come servo, in grado di svolgere lavori molto faticosi, oppure come difensore del popolo ebraico. Significativamente, la rianimazione del golem avveniva scrivendo sulla fronte la parola אמת, emet, che vuol dire “verità”, mentre bastava cancellare una lettera per avere la parola אמ, met, ovvero “morte”. È significativo perché sorprendentemente il golem si ritrova ad essere un non-morto tenuto in piedi da uno scarto di verità. Si vede che qui la dialettica non è tra morte e vita, come grossolanamente ci si potrebbe aspettare: piuttosto la non-morte viene a collocarsi nel luogo di una verità che si aggruma sul bordo della morte. Non a caso, emet non indica in ebraico una verità qualunque, bensì è una verità che l’uomo deve accettare senza riuscire a spiegarsene la ragione, come in Deuteronomio, 17, 4: «Ed ecco, il fatto è avverato», cioè indica la verità inspiegabile di un miracolo, di un’apparizione divina e così via, laddove koshet indica invece la verità nel senso dell’evidenza, la cui radice significa anche “ornamento”, cioè qualcosa di visibile, appariscente. Dunque il golem è espressione di questo mistero che è a un passo dalla morte, un’escrescenza argillosa sul confine del vuoto. Ciò che è anche la verità ultima dell’Adamo prima dell’infusione divina dello spirito vitale. Veridico fantasma della propria inesistenza.
W. Criswell, "Golem", olio e cera su legno, 1997
Nel moderno ebraico, golem è usato anche come sinonimo di robot. E non è, evidentemente, un caso.
Robot è una parola ceca derivante dal termine robota: “lavoro pesante” o “lavoro forzato”. Come è noto, fu Karel Čapek[3] a diffondere la parola, suggeritagli dal fratello Josef, nel suo dramma I robot universali di Rossum (R.U.R.). Nell’opera di Čapek, il tema della tecnofobia è fuso con una critica dell’industrializzazione e con la satira contro la situazione ceca. I robot, o meglio “roboti”, sono dunque una sorta di schiavi artificiali creati dallo scienziato Rossum nell’intento utopico di liberare l’uomo dalla fatica, fino a quando l’utopia non si ritorce contro l’uomo stesso, poiché i robot si ribellano e cominciano a schiacciare gli uomini. La storia poi ha un ambiguo lieto fine, poiché i robot si “umanizzano” e cominciano a provare sentimenti (un’anima?), nonché a scoprire e apprezzare i metodi di riproduzione adoperati dagli uomini – preambolo ad una fusione definitiva tra uomo e robot?
Il celebre robot di "Metropolis"
La letteratura sembra davvero precorrere la scienza per vie insospettabili. La tecnologia ha fatto propria la terminologia immaginifica di Čapek per indicare l’automa meccanico che ha preso a sviluppare attraverso gli studi sull’intelligenza artificiale, senza però rendersi conto che il termine stesso sopravanza la miopia percettiva della scienza. Accade con il robot quello che è accaduto con il cyberspace di Gibson: il mondo “reale” si appropria di un termine fantastico e lo tara sui portati tecnici attuali – internet –, solo per scoprire poi, con lo sviluppo della tecnoscienza, che l’aspetto mistico emergente a poco a poco dal luogo eterico della rete era giù tutto contenuto nell’originario cyberspace gibsoniano. Così la figura del robot ha preso ad indicare l’androide macchinico (ancora fondamentalmente settecentesco), di contro anche ad esempio al cyborg, commistione di organico e macchinico, solo per riscoprire oggi quel che Čapek aveva già messo nel conto: «Il vecchio Rossum, grande filosofo, [...] cercò di imitare con una sintesi chimica la sostanza viva detta protoplasma finché un bel giorno scoprì una sostanza il cui comportamento era del tutto uguale a quello della sostanza viva sebbene presentasse una differente composizione chimica»[4]. In breve: Čapek aveva immaginato il “suo” robot come un organismo creato dall’ingegneria genetica. Non come una macchina. Piuttosto un costrutto, appunto. Un golem, la cui argilla fosse un “protoplasma” biologico, facilmente immaginabile, oggi, come una provetta di acido nucleico.
Pertanto, il costrutto implicitamente rinvia già da sempre ad un riflesso spettrale della vita manipolata, prima ancora che ad una tecnologia macchinica pervasiva. La biopolitica che inevitabilmente si rovescia in tanatopolitica è già da sempre inscritta nel fantasma del costrutto.
Frontespizio del Frankenstein del 1831
E veniamo a Frankenstein. O meglio: alla creatura di Frankenstein. (È già significativo che il romanzo della Shelley nomini il costrutto sempre appunto come “la creatura”. Ma ancor più significativo è che nell’immaginario collettivo – a partire almeno dal secondo film del genere, Bride of Frankenstein di Whale, come apprendiamo da Wikipedia[5] – il nome che si è imposto per indicare la creatura è semplicemente quello del creatore: Frankenstein, in una sovrapposizione che rivela un legame molto più stretto tra le due figure.) A differenza degli altri costrutti, vale la pena sottolinearlo ancora, si tratta di un non-morto. Si sa bene qual è la ricetta per costruire un Frankenstein, almeno quella tradizionale proposta da Mary Shelley: si prendono parti diverse del corpo da diversi cadaveri, un cervello da un genio della medicina, si assembla il tutto con ago e cucito, si immerge il costrutto in una vasca di liquido amniotico, si incanala l’energia elettrica nei diversi chakra indicati dalla mappa dei meridiani della medicina tradizionale cinese ibridata con il galvanismo pseudo-scientifico e il gioco è fatto. Il novello Prometeo[6] ha partorito la sua creatura.
Indubbiamente, è evidente che tutto il romanzo della Shelley è un monito contro la hybris dello scienziato. Ma il fatto che il contenuto manifesto sia così esplicitamente tecnofobo deve quanto meno insospettire. C’è almeno, in prima istanza, un altro piano di lettura, marxista, che gioca in opposizione all’intreccio sessuale – morboso – del romanzo.
Nel contesto della sua decostruzione del mito ideologico della famiglia, Žižek inserisce alcune pagine dedicate al romanzo della Shelley: “Storia e famiglia in Frankenstein[7]. Significativamente il filosofo sloveno s’interroga subito su questa dialettica tra contenuto manifesto e contenuto latente: «Ma cosa accade se, invece, si segue sino alla fine l’analogia con la logica freudiana del sogno, tenendo a mente che il vero oggetto di un sogno, il suo “desiderio inconscio”, non è il pensiero latente del sogno, ma qualcosa che si inscrive paradossalmente in un contenuto onirico manifesto, attraverso i meccanismi di trasposizione del pensiero onirico manifesto? In altre parole, il desiderio inconscio in un sogno non è semplicemente il suo nucleo che non appare mai direttamente, distorto dalla traslazione nel contenuto onirico manifesto, ma il principio della sua distorsione»[8]. Ad una lettura standard, l’interpretazione marxista del romanzo vede nell’intreccio “famiglia-e-sessualità” un modo per obliterare il vero riferimento storico della Shelley: «Le tendenze socio-storiche più ampie (dalla “mostruosità” del terrore rivoluzionario all’impatto delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche) sono riflesse/messe in scena in maniera distorta sotto forma dei guai di Victor Frankenstein con suo padre, con la sua fidanzata e la sua mostruosa progenie»[9]. Ma, aggiunge subito Žižek, una simile lettura è riduttiva, in fin dei conti: si immagini il romanzo senza tutto l’accompagnamento del melodramma familiare e si avrà una storia piatta, tutto sommato povera, a dir poco bruttina. Pertanto «è vero che la narrazione esplicita è come un contenuto manifesto del sogno che rimanda in modo codificato al suo vero referente, al suo “pensiero onirico” […] riflettendolo in modo distorto; tuttavia, è attraverso questa distorsione e questo spostamento che il “desiderio inconscio” del contenuto […] si imprime»[10].
Un'altra immagine del Frankenstein del 1931
Žižek individua tre livelli di mostruosità nel romanzo della Shelley: il mostro stesso, ovviamente; il disordine sociale e la rivoluzione che fanno da sfondo all’intreccio principale; il romanzo in sé, mostruoso esso stesso, sgraziato ibrido di stili e generi giustapposti in maniera incoerente. Ad essi vi è da aggiungere un quarto livello di mostruosità dato dalle possibili interpretazioni del romanzo: una moltitudine di significati che non è possibile comporre in unità armonica. Dopodiché, il filosofo ci propone una serie di indizi tramite i quali sarebbe facile dimostrare che “il vero cuore” del Frankenstein sta nella mostruosità della Rivoluzione francese: 1. Mary e Percy Shelley erano appassionati studiosi della Rivoluzione francese; 2. Ingolstadt, la città dove Victor Frankenstein crea il suo mostro, è la stessa che viene indicata da Barruel come il luogo nel quale la società segreta degli Illuminati pianificò la Rivoluzione; 3. Il romanzo è dedicato al padre di Mary Shelley, William Godwin, un utopista descritto dai conservatori come un mostro che doveva essere schiacciato per evitare che l’Inghilterra finisse come la Francia (Godwin, tra l’altro, immaginava l’avvento di una nuova razza umana, prodotta attraverso un’ingegneria sociale che ponesse sotto controllo la sovrappopolazione); 4. La Rivoluzione stessa veniva spesso descritta come un mostro non-morto: Žižek cita Edmund Burke che vede emergere «dalla tomba dell’assassinata monarchia di Francia […] un vasto, tremendo e informe spettro»[11]; 5. Infine c’è il tema del mostro come prodotto sociale, che Mary Shelley riprende, in questo caso dalla madre, Mary Wollstoncraft, la quale in An Historical and Moral View of the Origin and Progress of the French Revolution aveva descritto i ribelli della Rivoluzione come mostri che, lungi dall’essere spettri fuoriusciti dalla tomba della monarchia assassinata, sono il prodotto dell’oppressione e del malgoverno, così come la cattiveria della creatura di Frankenstein non è che il frutto della sua cattività e della sua marginalità. Il non-morto come l’invisibile della società.
Su queste basi, Žižek può rilanciare la sua lettura del Frankenstein oltre la lettura marxista e femminista:
Le femministe leggono Frankenstein non come una paura conservatrice dei pericoli del progresso, ma come una critica protofemminista ai pericoli della conoscenza e della tecnologia maschile, che aspira a dominare il mondo e ad assumere il controllo della stessa vita umana. Questa paura è tra di noi ancora oggi: la paura che gli scienziati creino una nuova forma di vita o di intelligenza artificiale che sfuggirà al nostro controllo e si rivolgerà contro di noi.
Qui risiede in fin dei conti una fondamentale ambiguità che concerne il motivo della ribellione del figlio come mostruosità: della ribellione di chi si tratta in questo romanzo? La ribellione è duplice: il primo ribelle rispetto all’ordine paterno è lo stesso Victor, e il mostro si ribella contro il figlio ribelle.[12]
A questo punto emerge lo spettro dell’incesto, in quanto Unheimliche per eccellenza. «Ci deve essere qualcosa di sbagliato a casa», qualcosa per sfuggire alla quale sia Walton che Victor lasciano l’avita dimora, dedicandosi ai loro esperimenti. È in questo nodo critico che Žižek individua il meccanismo della produzione onirica: «la contraddizione tra “oppressione e anarchia”, tra la casa soffocante e opprimente e le conseguenze mortali dei nostri tentativi di evadere da essa» e l’incapacità per Mary Shelley di risolvere tale contraddizione, o meglio la volontà di non confrontarsi direttamente con essa, la inducono a raccontarcela attraverso il mito familiare, come un fantasma che affascina e spaventa a un tempo: il fantasma glorioso che, forse, può «erompere, illuminando il nostro tempestoso giorno», dalle tombe di «un popolo affamato», delle «leggi di oro e sangue che tentano e uccidono», di una «religione senza più Cristo, senza Dio», evocato da Percy Shelley in L’Inghilterra nel 1819[13], e che potrebbe pur rivelarsi un fantasma «niente affatto così glorioso, ma piuttosto un fantasma di vendetta assassina, come il mostro di Frankenstein»[14].
Siamo così giunti a svelare il “vero cuore del Frankenstein”? Ovviamente, da un punto di vista geisterfilosofico la lettura di Žižek è essa stessa un interrogatorio teoretico: per quanto brillante e acuta, la sua analisi resta appunto un’analisi, e come tale le sfugge la voce silente del fantasma. Del fantasma di Frankenstein ovviamente. Torniamo allora all’interpellazione geisterphilosophich: quale spettro ci agita davanti agli occhi l’orrore di Frankenstein?
Ancora una volta, probabilmente, dobbiamo guardare nella direzione indicata da Čapek, che aveva visto giusto quando scriveva che il vecchio Rossum avrebbe potuto, per esempio, «ottenere una medusa con il cervello di Socrate oppure un lombrico lungo cinquanta metri. Ma poiché non aveva nemmeno un pochino di spirito, si ficcò in testa che avrebbe fabbricato un normale vertebrato addirittura l'uomo». Insomma, per mezzo dell’ingegneria genetica si potrebbe ottenere un’infinità di ibridi e realizzare qualunque chimera, ma la mancanza di spirito induce l’uomo a voler semplicemente replicare l’uomo! Ecco il punto: «Il vecchio Rossum non aveva un briciolo di gusto», in fondo! La stessa mancanza di gusto di Victor Frankenstein: in fondo sarebbe possibile immaginare qualunque forma di costrutto, si sarebbe potuto immaginare un mostro molto più mostruoso per – almeno – i primi esperimenti del Doktor Frankenstein, zampe ferine su corpi squamosi, esseri con tre teste, vere e proprie chimere. Niente di tutto questo: solo una grossolana copia dell’uomo! In fondo è questo il fantasma che sfugge allo stesso Žižek, che nell’interrogatorio non vede che il suo spettro – la Rivoluzione riflessa nell’incesto – mancando l’elemento più ovvio del romanzo. Tanto ovvio che, per l’appunto, si tende a dimenticare: il mostro di Frankenstein è un non-morto, un cadavere rianimato. Se si vede in esso la metafora di qualcosa, come lo spettro della Rivoluzione, si finisce inevitabilmente per silenziare lo spettro che il mostro stesso è: composto ibrido di parti cadaveriche rianimate dall’intervento pseudo-ingegneristico. Non la “semplice” creazione di un replicante androide, dunque, come lo legge la critica femminista citata dallo stesso Žižek. Ma nemmeno solo uno spettro della ribellione.
E allora cosa c’è in questa mancanza di gusto di Rossum/Frankenstein? In entrambi i casi abbiamo la manipolazione di materiale organico (umano) per la (ri)animazione indefinita dell’uomo. Necromanzia pura, che sfida la morte per generare vita da materiale cadaverico. Si potrebbe dire: tanatologia, rovescio dialettico della biologia. Non dunque creazione pura e semplice, hybris demiurgica, ma replicazione dell’umano. E dunque sostituzione dell’umano.
EVA, illustrazione di Simone Delladio per Sine Requie
Ecco allora cos’è che viene sublimato nella “sindrome di Frankenstein”. Ecco cos’è che s’annida in questa trama aracnoide sulla quale pende il ragno della tecnica. Tecnofobia: aracnofobia del Ge-stell. La sindrome di Frankenstein, lungi dal poter essere placata dall’ottimismo positivistico delle tre leggi della robotica (ciò che, francamente, suona come il progressismo utopico di Bush: “lasciate che sia la ricerca tecnologica a trovare una soluzione ai problemi sollevati dalla ricerca tecnologica”), non è che la sublimazione del velenoso ragno che tesse il destino dell’umanità. La paura della morte, in fondo, produce l’orrore della tecnoscienza. La rivoluzione non è che il risvolto fantasmatico di quest’utopia millenaristica che avanza nel doppio progressismo ebraico-cristiano della realizzazione dei tempi: resurrezione dei morti e giustizia sociale. Ecco perché il capitalismo può installare la rivoluzione come motore a scoppio del proprio dispositivo di funzionamento: perché entrambi hanno la loro comune matrice nel luteranesimo, ovvero nel cristianesimo secolarizzato (vogliamo il paradiso, vogliamo la resurrezione dei morti, e li vogliamo sulla Terra, qui ed ora). E sì, ne viene fuori qualcosa di molto poco estetico, qualcosa di ibrido: un costrutto, un Frankenstein, per l’appunto, in cui, ovviamente, la libido gioca il ruolo del propulsore.
Il mostro di Frankenstein, in sé, non può far altro che suscitare paura, esattamente come il ragno, e non ha niente da dirci. Come il ragno, esso si compie nella sua evenemenzialità.
Ma nell’evocarne il fantasma sarà allora possibile cogliere la testimonianza silente, e davvero atroce, che esso rivolge contro chi guarda, agitandoci dentro tutti i nostri fantasmi. Allora comprendiamo perfettamente l’orrore negromantico della biopolitica – di ogni biopolitica – il cui risvolto fantasmatico non è che la tanatopolitica. Proprio come Victor Frankenstein, il necromante non è altri che un assetato di vita: il fantasma di Frankenstein ci dice proprio questo, all’evocazione geisterphilosophich, ci dice proprio che, nella ricerca incessante della vita non facciamo che trovare la morte, nel percorso destinale della biotecnologia non facciamo che realizzare una tanatotecnologia. Frankenstein: il figlio ribelle che si ribella al figlio ribelle. Creatura e creatore a un tempo. La non-morte della creatura non fa che rispecchiare la non-vita del creatore. E così, nell’incessante spasmodica ricerca progressista del capitalismo tecnocrate, ecco che l’uomo si riscopre in tutta la sua “mancanza di gusto”, si sorprende a creare nient’altro che una copia cadaverica di sé – segno spettrale della propria avvenuta cadaverizzazione.
È giusta, dunque, la critica femminista che scorge nel Frankenstein, la folle volontà maschile di produrre vita senza la generazione materna. (E tuttavia la domanda sarebbe: non bastava la vecchia illusione patriarcale che a generare fosse direttamente l’uomo e che la donna non fosse altro che un recipiente?) Ma perché questa folle volontà? Non è forse perché ogni generazione materna presuppone la morte, come ben sapevano i vecchi miti legati alla Grande Dea, generatrice di vita portatrice di morte a un tempo? Non è forse la paura della morte ciò che in ultima istanza si cela dietro ogni patriarcato, dietro quella presa di potere da parte degli uomini contro il femminile e contro la Natura? Non è forse, questa morte in vita, già da sempre inscritta nella storia dell’Occidente, in questa ricerca contronatura tanatotecnologica per strappare alla Natura puttana il segreto della vita?
Perché la fame di vita? Non è forse un’assenza? Non manca, la vita, a chi la cerca famelicamente? Chi, se non il non-morto, ha fame di vita?
«Gibt es ein Leben vor dem Tod?»[15]

[1] A. Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Muzzio, Padova 1996, p. 15.
Il "Golem di Carne" secondo il Manuale dei Mostri del D&D
[2] Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Golem
[3] Su Čapek cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Karel_Capek
[4] Citazione tratta dalla pagina di Wikipedia dedicata al “robot”: http://it.wikipedia.org/wiki/Robot.
[5] http://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Frankenstein
[6] Il moderno Prometeo è il sottotitolo che Mary Shelley aveva dato al suo Frankenstein. Ovviamente, l’appellativo è da intendersi riferito al dott. Victor Frankenstein, che sfida la morte, ovvero il fato, in una hybris tecnoscientifica a dir poco funesta. Per un breve riassunto, capitolo del capitolo, del romanzo, v. http://www.shakespeareinitaly.it/riassuntolibrofrankenstein.html
[7] S. Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, tr. it. di C. Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano 2009, pp. 97-107.
[8] Ivi, p. 97.
[9] Ivi, p. 99.
[10] Ibid.
[11] Cit. ivi a p. 101.
[12] Ivi, p. 106.
[13] P.B. Shelley, L’Inghilterra nel 1819, in Opere, a cura di F. Rognoni, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, p. 211.
[14] S. Žižek, op. cit., p. 107.
[15] «C’è una vita prima della morte?». Verso di Wolf Biermann, cantautore e poeta tedesco: http://www.wolf-biermann.de/

Diego Rossi

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