sabato 23 marzo 2013

Boys don't cry

Boys don't cry, di K. Peirce, col, 118', USA, 1999.

Girls, don’t cry ! 


"La donna clitoridea può essere molto vagheggiata dall'uomo finché egli l'assimila a una donna estrosa (...), ma appena egli scopre dietro le apparenze di una femminilità non sospetta la struttura di individuo non sopporta la reciprocità della coscienza e del giudizio, lascia, si ritrae, pone l'ostracismo, si conforta in un unione riposante, materna."
Carla Lonzi, 1971
Teena nasce a Lincoln, Nebraska, nel 1972, è ancora una ragazzina quando, stando alle dichiarazioni della madre, viene violentata da un parente e decide di vestire panni maschili, ma questo in “Boys don’t cry” di Kimberly Peirce non viene raccontato ed è soltanto una delle incongruenze imputate al film. Il giovane Brandon, poco più che ventenne, fugge da Lincoln per guai con la giustizia (pare che amasse fare regali costosi alle sue fidanzate rubando) e raggiunge un altro punto del Nebraska, la piccola città di Falls City, ed è qui che per la regista ha veramente inizio la storia del personaggio ed ha compimento la parabola di una vita. A Falls city - che è interessante leggere come “la città della caduta” - Brandon stringe amicizia con quelli che saranno i suoi carnefici, John Lotter e Tom Nissen, e s’innamora - he falls in love - di Lana Tisdel, che troverà da ridire sul personaggio calcato su di lei dalla regista e da Chloe Sevigny, perché fondamentalmente “White trash”, pigra, alcolizzata ed incolta.

venerdì 22 marzo 2013

Parlo zittamente

C.D. Friedrich - Il viandante sul mare di nebbia

L’autismo è una sfida. Si manifesta, innanzitutto, nel silenzio. E questo silenzio è una sfida e una pro-vocazione. Ma non è mai un rifiuto, come noi, invece, per lo più, tendiamo a considerare. Piuttosto, quel silenzio è una sfida lanciata al nostro rifiuto. Siamo noi a rifiutare quel silenzio - a negare la voce che risuona in quella pro-vocazione.
«Noi cosiddetti normali non abbiamo difficoltà ad attribuire significati alle cose, alle persone, alle parole, alle espressioni, ai comportamenti degli altri e così via. Il mondo ci appare normale così come i nostri sensi ce lo consegnano, infatti i sensi inviano al cervello informazioni e messaggi fondamentali per la crescita della persona. Nell’autistico tutto questo non avviene e il soggetto si trova spesso a vivere in un mondo incomprensibile, estraneo, oscuro e confuso, per non dire minaccioso».
In questa spiegazione si dà una prima indicazione, in negativo, per ascoltare l’autismo. Ciò che l’autismo non è: piattezza della normalità, banalità del quotidiano, informazione e messaggio. Di contro, Federica Aramu ci dà un’indicazione in positivo: «La mia libertà latente, lascia clandestinamente spazio alla capacità di navigare nel tempestoso mare della mia fantasia, la quale, crea venti deleteri al mio clamoroso silenzio: samaritano massacro, che mi assolve sistematicamente dalla quotidianità, naufragando però verso derive dannatamente inquietanti. Volgo solitamente maree di allusioni alla mia malattia cercando continue vie di fuga, ma la cosa più logica da fare, sarebbe continuare a vivere negligentemente nel salomonico attonito labirinto; quel labirinto che stenta a trovare l’uscita».

21 marzo 2013 - Zittamente parlo

Alchimie d'un Equinozio Primaverile:
Affinità Elettive, Nuovi Equilibri, Inter-Azioni.
Tutto questo è accaduto giovedì 21 Marzo all'Ex Asilo Filangieri Balena; Pensieri Dal Basso, Fantasmatica AssociazionePs, Autism AID, Centro Polifunzionale "E' più Bello Insieme", Adriana e Davide, Brunella, Federica...proprio così... come Claudio D'Agostino ci ha detto e dimostrato: "tutti insieme", 5 soggetti distinti ma non diversi, cittadini differenti tra loro ma non atomicamente isolati, appassionati, lavoratori dell'immaginario...proprio così... "tutti insieme"!!!

giovedì 14 marzo 2013

Considerazioni a latere - La solitudine dei maschi



Tony e Antonio s’incontrano, al mercato. Si guardano negli occhi. Si riconoscono. Cosa riconoscono? Cosa vedono l’uno negli occhi dell’altro? La scena è archetipica, ricorda l’incontro tra le due autocoscienze di Hegel. Le autocoscienze, nella Fenomenologia dello spirito, si vedono, si riconoscono, lottano per il riconoscimento ― per l’autoaffermazione. Maschilismo e violenza. L’autoaffermazione si basa sul riconoscimento dell’altro. Sull’affermazione della propria libertà assoluta di fronte alla morte. Chi teme per la propria morte, cede libertà, si sottomette all’altro. Riconosce l’altro come signore.

mercoledì 13 marzo 2013

L'uomo in più

L'uomo in più di Paolo Sorrentino, col, 100', It, 2001

’A vita è ‘na strunzata
(Tony Pisapia)

Paolo Sorrentino evidenzia la condizione esistenziale di due uomini (Tony e Antonio Pisapia) che hanno lo stesso nome e destini più o meno simili, per successi e sconfitte. Le due storie scorrono parallele, i protagonisti non si conoscono e non s’incontrano mai, se non nel finale, quando il loro sguardo s’incrocia per un attimo al mercato del pesce; da qui poi si delinea la chiusa della trama in cui il regista, anziché far vedere i due personaggi uniti e affiancati nel prosieguo della loro vita, in un lieto fine sperato dallo spettatore, porta alle estreme conseguenze il tratto esistenziale dei protagonisti con il suicidio di Antonio e l’omicidio commesso da Tony.

L'ampio e acceso dibattito che è seguito alla visione del film si è aperto in primis con il tentativo di identificare il “perdente” e il “vincente”. Il perdente è senz’altro Antonio, anche se è una figura pulita e onesta, un calciatore che non accetta compromessi (per realizzare facili guadagni con truffe sulle partite propostegli dai compagni di squadra) e il suo unico sogno è di diventare allenatore. Antonio appare come un uomo flemmatico, sensibile e fondamentalmente triste e solo, ancor di più lo diventa dopo l’incidente in campo con conseguente rottura dei legamenti, il che non gli permette più di giocare. Così proietta il suo interesse alla realizzazione dell’unico desiderio, tanto da far allontanare, senza rendersene conto (o rendendosene conto?) sua moglie, che finisce col tradirlo e lo abbandona. Egli non reagisce, ma si limita solo a dirle “sei una puttana!” e la lascia andare via. Si chiude nel suo baratro di silenzio, nel suo mondo fittizio del calcio continuando a sperare di ritrovare il successo del passato o una nuova realizzazione della propria esistenza ma, alla fine, quando comprende che il suo sogno sarà irrealizzabile, si uccide con un colpo di pistola, sul campo sportivo. È perciò perdente, perché muore, perché non ha avuto la forza di continuare a vivere! Ha dimostrato che il suo solo obiettivo è raggiungere il potere, il successo, il lavoro! Si eleva immediata l’osservazione: ma perché gli uomini proiettano la loro vita solo sul lavoro? Non esistono anche altri orizzonti? Perché non comunicano con chi vive loro accanto? Perché scelgono la solitudine pur vivendo una relazione? Perché tra di loro non si confidano e confortano? Perché non sono come noi donne, che troviamo naturale confidare nelle amiche, ci aiutiamo reciprocamente, sentendo nostre le sofferenze e violenze che le altre subiscono?

giovedì 7 marzo 2013

Amore e libertà - considerazioni a latere

Frank von Stuck - "Medusa"
Che cosa ci fa paura nei peli della Donna scimmia? Cosa attrae e inorridisce i maschi nel corpo cavo della donna amata? Cos'è che produce orrore e rende agli occhi della donna alieno e mostruoso il proprio stesso corpo? La terra nera? La natura? Forse il non appartenere mai interamente a se stessa? "La donna scimmia", evidentemente, sotto la lente d'ingrandimento del caso estremo, individua in questo corpo e in questo mistero il terreno di incontro e di scontro - di violenza, interesse e tenerezza - che lega l'uomo alla donna - e viceversa - in quel vincolo tenero e violento che è l'amore.

Nietzsche concepiva l’amore come una lotta tra i generi. E forse, a pensarci bene, non aveva poi tutti i torti. Volontà di potenza. Camuffata da buoni sentimenti, s’intende.

Dobbiamo rassegnarci? Dobbiamo accettare l’impossibilità di superare veramente il muro d’incomprensione e di alienità che separa maschile e femminile? Dobbiamo magari anche smetterla di volerci confrontare e tentare di addivenire ad un superamento (dialettico) della dialettica oppositiva?

Certo è che, quando maschi e femmine si confrontano sui temi legati al genere, sembra davvero che parlino due lingue inconciliabili. Siamo stranieri, gli uni alle altre. E le altre, spesso, lo sono a se stesse - straniere, intendo - oltre che a noialtri. Ci manca la lingua, una lingua madre comune che ci faccia intendere. Il logos è maschile. Altro linguaggio, però, pare non lo si riesca a parlare. E dunque?

martedì 5 marzo 2013

La donna scimmia

La donna scimmia, di M. Ferreri, B/N, 92', Italia/Francia, 1965



"Sono una donna, non un fenomeno!"
(Maria)


Il dibattito su La donna scimmia di Marco Ferreri si è concentrato innanzi tutto sulla modernità del film che, pur essendo stato girato negli anni Sessanta, affronta il tema attualissimo della spettacolarizzazione del femminile e dei concetti di “normalità” e di “mostruosità”. Ciò che colpisce oggi, infatti, sono corpi “mostruosi” perché trasformati dalla chirurgia estetica per rispondere ai canoni imperanti di “normalità” e “bellezza” televisiva. Successivamente, si è riflettuto sull’ambiguità dei personaggi, sui loro ruoli e sui loro rapporti: è possibile che Antonio (Ugo Tognazzi) ami Maria (Annie Girardot) o il suo comportamento è sempre e comunque dettato da interesse? La stigmatizzazione di Maria come “fenomeno” non sembra intaccarlo, anzi, sembra suscitargli umanità e fierezza. Ma questo suo atteggiamento è autentico o fa parte del copione che il suo ruolo di marito gli impone? D’altra parte, Maria, nonostante dimostri in più punti una grande consapevolezza e capacità decisionale (quando si ribella alla permanenza con il professore perverso; quando impone al marito di adempiere ai suoi doveri coniugali; quando decide di portare avanti la gravidanza) soccombe al suo ruolo di moglie e quindi alle direttive di Antonio, coprendosi quando passeggiano per strada. Tuttavia, durante gli spettacoli, Antonio trasforma Maria da fenomeno da baraccone a donna fatale che seduce con la sua nudità, dandole in questo modo una possibilità di vita che l’ospizio delle suore in cui era cresciuta non avrebbe mai potuto offrirle. Spogliandoci dalla prigione dei ruoli, delle sovrastrutture e delle imposizioni socioculturali riusciremmo a raggiungere il nostro vero Io?

sabato 2 marzo 2013

Giulietta degli spiriti

Giulietta degli spiriti, di Federico Fellini, col., 137', It, 1965


GIULIETTA DEGLI SPIRITI di Federico Fellini, col., 137', It, 1965. 

Atto d’amore o allegoria di una giustificazione insostenibile?
La riflessione intorno a Giulietta degli spiriti deve necessariamente giocare di equilibrio tra la realtà e la finzione.
Dietro alla rappresentazione c’è lo sguardo di un uomo (Fellini) che dirige moglie (Masina) e amante (Milo), due icone agli antipodi del femminile, due  donne prive di mistero e tuttavia profondamente se stesse, fino in fondo. Nel ruolo come nella vita.
La domanda che si è imposta sulla posizione di Fellini rispetto al suo film coinvolge naturalmente il vissuto di una relazione d’amore. Ci si interroga sul gesto, cosciente del regista e dichiarato, ma forse non profondamente sondato, di rappresentare l’universo interiore, sfaccettato e fantasmatico, della sua compagna e musa come omaggio all’imperscrutabilità di quel femminile rappresentato da Giulietta, come forma di scambio d’amore per cui la musa diventa oggetto inafferrabile della viva creazione artistica oppure come un’intollerabile manipolazione, una vera e propria violenza, da parte del regista sull’attrice, che le impone di recitare il suo giudizio, da parte del marito sulla moglie, che le impone come maestra di vita la sua amante, da parte dell’uomo sulla donna che diventa padrone assoluto della salvezza e della condanna.
L’interrogativo è duro e non lascia molto scampo. Si è praticamente divisi su questo punto perché ognuno segue quella voce interiore fatta di esperienza, giudizio e speranza che a ciascuno  ha suggerito la singola tessera di quel caleidoscopio di opinioni di cui è fatto dibattito. In questo rispetto delle posizioni, tra le tanti voci, si avvertiva chiaramente una mancanza data dalla consapevolezza del fatto che Giulietta, l’attrice, la moglie, la donna resta a noi sconosciuta, nella vita, nonostante l’evocazione grazie alle parole di Kezich, così come nel film, ed è forse questo confine nascosto – questa differita, che sottolinea la profonda impossibilità dell’essere di coincidere – a restare intatto dalla rappresentazione del film.
È impossibile restituire la trama di un film come “Giulietta degli spiriti”. 
Fellini, forse oggi amaramente distante da un pubblico italiano disabituato al genio, risulta ai più pesante o ridondante, quasi offensivo con il sincretismo della sua rappresentazione. Il suo genio non potrebbe essere compreso a partire da una spiegazione dell’intreccio del film.
 I temi messi in campo sono veramente tanti: il corpo, la sessualità, la critica alla religione, l’autonomia della donna, il tradimento, il sacro, il profano, il riso, lo spiritismo, il tempio e la casa.
Ciò che è possibile restituire, in uno scarno resoconto come questo, sono le domande suscitate dai singoli film di volta in volta che creano il terreno di questo percorso laboratoriale sul genere.
E allora si deve affrontare con serietà quanto in ogni rapporto d’amore è possibile restituire la verità dell’altro/a, in questo desiderio di possedere l’altro/a fino in fondo, fino quasi a ricrearlo, come accade con lo psicodramma di Giulietta che diventa la metafora di tutto il film. Ricreare l’amata/o,  come un dio, se l’amore è una religione, nel desiderio incontenibile di comprenderlo.
Ma se l’amore non è una religione, allora questo sentimento non sembra passare in fondo  sempre attraverso una violenza? Una violenza che riconosciamo essere solo maschile ma che forse è propria della relazione d’amore.
Certo è che Fellini ha inviato, attraverso il corpo minuto e agile della moglie, il suo messaggio alle donne: ribellatevi alla santità! Sottraetevi alla graticola! Anche se il vostro tempio deve essere la casa, sacerdotesse le cameriere, offerte all’altare le conserve.
Sottraetevi alla condanna della religione e abbracciate la sensualità del corpo e della libertà!
Forse scoprirete che ciò che amate è in realtà una condanna da allontanare e che silenziosamente non aspettate altro che la sua partenza.

Quanto parlano ancora alle donne queste esortazioni?
Quanto ancora gli uomini, quelli avvertiti, innamorati, si sentono di ripeterla.
 Per dirla con la provocazione bonaria lanciata agli uomini durante la discussione: “Quanto potete fare di meglio?”


"Tutta la mia vita è piena di gente che parla, parla, parla, andatevene! Tutti fuori di qui"
(Giulietta)


Atto d’amore o allegoria di una giustificazione insostenibile?

La riflessione intorno a Giulietta degli spiriti deve necessariamente giocare di equilibrio tra la realtà e la finzione.

Dietro alla rappresentazione c’è lo sguardo di un uomo (Fellini) che dirige moglie (Masina) e amante (Milo), due icone agli antipodi del femminile, due donne prive di mistero e tuttavia profondamente se stesse, fino in fondo. Nel ruolo come nella vita.

La domanda che si è imposta sulla posizione di Fellini rispetto al suo film coinvolge naturalmente il vissuto di una relazione d’amore. Ci si interroga sul gesto, cosciente del regista e dichiarato, ma forse non profondamente sondato, di rappresentare l’universo interiore, sfaccettato e fantasmatico, della sua compagna e musa come omaggio all’imperscrutabilità di quel femminile rappresentato da Giulietta, come forma di scambio d’amore per cui la musa diventa oggetto inafferrabile della viva creazione artistica oppure come un’intollerabile manipolazione, una vera e propria violenza, da parte del regista sull’attrice, che le impone di recitare il suo giudizio, da parte del marito sulla moglie, che le impone come maestra di vita la sua amante, da parte dell’uomo sulla donna che diventa padrone assoluto della salvezza e della condanna.