martedì 22 marzo 2011

The Others


The Others, di A. Amenàbar, 101 min., colore, USA/Spagna/Francia 2008


The Others sono immagini in sequenza sull’alterità, sull’alterazione si sé, sulla compresenza in uno stesso mondo di più dimensioni, di punti di vista altri, di altre presenze, di altri corpi incorporei, di altre percezioni, di altri sensi. Un film di fantasmi, in cui il confine tra vita e morte non si perde, non scompare, ma continua a tracciarsi mentre si cancella, perché l’immagine gioca sulla percezione di chi guarda e sente; perché tradisce la fiducia dello spettatore, che prima crede al regista, a ciò che gli mostra e poi deve ricredersi, distaccarsi dallo sguardo dell’altro, meccanico e di carne insieme, e riprendere a fidarsi di sé, di ciò che sente, perché quello che c’è fuori, sullo schermo, è ormai marchiato dal segno del tradimento, dalla posizione di un confine che prima non c’era.
Il mondo di “compresenze” è sì quello di fuori, abitato da figure figuranti per lo più servili (il prete che celebra messa per Dio, per la comunità di fedeli e per la dittatura della sua anima cristiana, che gli intima purezza e obbedienza in cambio di salvezza o dannazione eterna; i domestici, che servono il/la padrone/a per sempre, fedeli, sottomessi per sempre anche post mortem; il marito, che decide di andare in guerra per servire la Patria e non sottomettersi all’amore dell’amante, alla sua pretesa di presenza e all’incombenza dei doveri che la famiglia richiede), che circolano tra case, giardini, chiese, strade, cimiteri, boschi nebbiosi, ma è anche quello di dentro, il mondo racchiuso in un corpo di corpi.


Scrive Cabrera che il cinema, nella sua instabilità, nella sua natura di mezzo allucinatorio è sempre tra il naturale e il sopranaturale, “non si limita a mostrare, ma consiste nel suo mostrare: e tutto ciò che scorre sullo schermo s’impone da sé, è lì e basta” (Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg, 1999). L’immagine, dunque, si staglia sull’intermittenza della luce, sul fondo instabile dello spettro luminoso. L’autorità dell’immagine è data dall’imporsi dell’occhio del regista, che può decidere come giocare e come gestire, nei limiti del possibile, il fantasmatico nel quale decide di narrare storie che in esso assumono un nuovo statuto, al confine tra più mondi e tra più modi di percepire. Per l’Amenábar di The Others il film diventa un luogo di scomposizione del fantasmatico, che ridotto ai suoi elementi costitutivi, basilari, viene poi riprodotto sulla pellicola e così annullato nella sua specificità iconografica, del suo genere proprio. Non che non ci siano immagini che richiamino i veli del fantasma o le ossa di scheletri antichi che traspaiono da pelli diafane attraversate dalla luce e, in alcuni punti, nere come burroni di cui non si vede il fondo. Evocativa, da questo punto di vista, la scena in cui Ann, la figlia ribelle di Grace, vestita da “sposa” per la sua prima comunione, avvolta nel candido vestito spumoso cucito per lei dalla madre, assume inaspettatamente le sembianze di un fantasma. Una sposa cadavere che gioca con dei burattini. L’effetto che tuttavia provoca la riproduzione parcellizzata del fantasmatico da parte di Amenábar è il dilagare del fantasma sulla pellicola, sulla quale si innestano più possibilità di lettura in una storia di fantasmi, che racconta della follia e del dolore che può generare un abbandono. La folle du logis.

Sulla percezione: la convivenza tra vivi e morti (livello della comunita’ allargata)
“Dobbiamo imparare a vivere tutti insieme, i vivi e i morti” dice Berta, la domestica d’altri tempi, (quelli in cui era viva) a Grace, la padrona di casa, la vedova presunta, sola, disperata e piena di fede. Berta è un fantasma, è una donna ormai morta, esperta del suo stato, pacificata con questo mondo a cui sente ancora pienamente di appartenere. Questo mondo, quello che vediamo, che ci sembra pulsante di vita, è un mondo di fantasmi, o meglio, un mondo in cui sono i vivi ad essere “gli altri”, gli intrusi, li/ci chiama Berta. Gli umani, quelli in carne ed ossa, occupano in realtà spazi già abitati, invadono case in cui esistono già legami consolidati con il passato, con le cose, con gli altri fantasmi. Le fotografie post mortem con cui i vivi cercano di mantenere un legame con chi non c’è più, nel mondo dei fantasmi, non sono altro che ricordi di un passato remoto, scatti di un istante in cui, allo stesso tempo, il morto torna in vita in altra forma, e il vivo muore, nella creazione di una composizione che archivia per sempre una relazione di cui dentro, forse, continuerà a sentire le voci, ma che fuori consegnerà ad un album polveroso, ad uno scatolo di latta senza fondo, ad un tempo perduto, finito, senza futuro.
I fantasmi, ci spiega ancora Berta, che nel film di Amenábar ha il ruolo di accompagnare Grace nel suo cammino verso la piena presa di coscienza fantasmatica della sua nuova condizione, non sempre si sentono, non sempre sentono i vivi.  La presenza dei vivi può non essere percepita dal fantasma, ma se i vivi “trovano” i morti non si può far altro che parlare con loro.

Sulla conoscenza: le relazioni tra non-morti (livello della comunità terrena, dimensione familiare)
Come Suspance di J. Clayton anche The Others è un film che si ispira a Giro di Vite di Henry James, a quel Turn of the Screw che rimanda all’immagine dell’avvitarsi della psiche su se stessa, dello stringersi di un corpo ad un altro, passando per tragitti tracciati, incisi nella materia, nella carne.
Amenábar coglie l’occasione offertagli dal romanzo di James, per leggervi in controluce quella relazione inquietante e affascinante tra morte, violenza e conoscenza che gli è sempre stata cara e che nei suoi film indaga in forme diverse, mostrando, inoltre, una particolare sensibilità nei confronti delle questioni e delle figure di genere che, inevitabilmente, evocano gli spettri della Ragione, della Legge e la loro relazione segregante, tassonomica, asfissiante con la follia (Tesis,1996; Apri gli occhi, 1997; Il mare dentro, 2004; Agora, 2009). E’ attraverso i corpi fantasmatici di Grace, Ann, Berta, Livia e di quello in carne ed ossa della Medium, che si manifesta l’altro, che il fantasma prende corpo. Il fantasmatico in The Others si trasmette attraverso una genealogia marcatamente al femminile, che ci dice delle relazioni tra la conoscenza e il corpo, tra la percezione sensibile e la ragione, tra la paura, il controllo e l’abbandono.
Per Amenábar conoscere vuol dire dimenticare gli insegnamenti ricevuti e assunti come criteri di orientamento nella propria vita. Conoscere è un percorso di decostruzione del sapere trasmesso dalla tradizione, dalla comunità, dagli insegnamenti del Padre e della Madre. Conoscere, in The Others, vuol dire credere in ciò che si sente, in ciò che si percepisce con il proprio corpo. Solo attraverso quest’atto di fiducia nei confronti del proprio sentire, solo accordando fiducia anche a dimensioni diverse da quella razionale, che attinge dal fondo senza fondo della memoria, costruita con le parole di altri, è possibile iniziare ad essere in relazione con il mondo, con gli altri, con sé. Madame Grace, la folle, l’omicida, la madre buona che però non è riuscita ad essere ancora una buona madre, non crede a ciò che percepisce, resiste facendosi forte della sua credenza superstiziosa, della sua fede che la rende cieca e sola. Le uniche storie che ritiene vere, perché esemplari, perché custodi del segreto del mondo, della vita e dell’origine sono quelle della Bibbia, in cui si tramanda la voce di Dio, della Legge. “Io penso che tua madre – dice Berta ad Ann – non voglia ascoltare, crede solo a ciò che le hanno insegnato. Non preoccuparti! Presto o tardi capirà anche lei ed ogni cosa sarà diversa.”
Grace non ricorda, ha cancellato il momento in cui è passata dalla non vita alla non morte. Amenábar non chiarisce se la madre disperata e autoritaria, che cerca di curare come può i suoi figli, conservi per tutta la durata del film la consapevolezza della possibilità che crede che Dio le abbia concesso subito dopo il suo folle gesto: quella di essere finalmente una buona madre. Oppure se, anche la memoria di questa speranza, riviva nell’istante in cui cade il velo di Maya, quando la realtà si svela e decide che è il momento di essere raccontata.

 Sul ritorno: la relazione con sé (livello individuale-esistenziale)
 “…è lasciando riposare, facendo pace con il mondo, che possiamo sperare di veder manifestare l’alto – è dell’ordine dell’epifania, sia da lontano che da vicino, che è un altro lontano, dato che ciò che è vicino è anche un estremamente lontano, ciò che è vicino agisce come un’estrema lontananza.” (Hélène Cixous, La lingua che verrà)
L’alterità di cui racconta The Others ha lo strano potere di riportare a sé, non di produrre i sintomi, i danni e le solitudini del modello di alienazione di memoria marxista, che, certo, resta un fantasma, uno spettro, scrive Derrida, ma non sempre viene evocato, non sempre sottende i modelli di riproduzione, fossero anche quelli dei fantasmi o quelli delle generazioni di mostri, di folli e di uomini in guerra. Come una fonte in cui l’acqua che scorre non fugge lontana, non si getta nel mare più prossimo, ma si raccoglie e torna all’origine, così The Others è il racconto di una ricomposizione di sé, di una ricomparsa di sé a sé, attraverso l’accettazione della propria alterità. Come dire che per riconoscere gli altri, l’altro di/da sé, è necessario individuare la propria dimensione, il proprio posto nel mondo, la relazione tra le dimensioni di dentro che attraversano il corpo, aprendolo al fuori, all’esterno, all’estraneo.
Non si tratta di riconoscere un nucleo granitico dentro di sé che diventi traduttore infallibile del mondo; non è quel principio di legge che si è soliti chiamare identità, la “propria identità”, rispetto a cui si è fedeli o traditori/trici. Si potrebbe invece pensare che l’attenzione si debba porre piuttosto sugli spostamenti che i fantasmi producono, che la dimensione fantasmatica produce in chi la abita, come una casa in cui all’improvviso non si trovino più le pesanti tende che proteggevano dal sole e allora bisogna spostarsi dalla luce e all’inizio, forse, nascondersi, ma poi acquistare una nuova visione di sé, una nuova prospettiva su di sé, un’altra verità. E dopo aver trovato un nuovo luogo, mentre si avverte la tentazione della ricostruzione, prepararsi ad un nuovo cambiamento, ad un altro spostamento, l’ennesimo. Vivere, intanto, come se non ci fosse attesa di dopo, come se fosse già tutto presente, come in un paradosso, come ne “L’impero della luce” di Magritte.

 Sul paradosso: la relazione tra i significanti e i significati (livello simbolico)
 E’ sorprendente come l’immagine che Magritte dipinge tra il 1953 e il 1954 possa raccontare bene The Others, come possa dirne il paradosso e mostrare la possibile convivenza tra il buio e la luce all’interno di una stessa realtà, che però, si deve immaginare multidimensionale, pluritemporale, piena di compresenze. “L’impero della luce” ci suggerisce così anche di come sia possibile giocare con i segni, cercare i significati e rendersi conto dell’impossibilità di relazioni univoche.
In The Others la casa è il proprio mondo interiore, ma anche il corpo che lo racchiude; le finestre sono gli organi di senso che possono aprire o chiudere al mondo; la nebbia è l’ignoranza di sé, l’incapacità di vedere ciò che c’è oltre lo spazio breve che ci circonda, l’impossibilità di guardare la realtà, di interpretarla, soprattutto; la luce è la verità, Dio, la legge, la ragione, ma anche il principio di gioia che deriva dal sentire il proprio corpo a contatto con la natura, illuminato dalla luce piena che viene da fuori e da cui si decide di essere attraversati: il corpo cambia aspetto se ad illuminarlo è il sole e non la luce tremolante di una candela; le fotografie post mortem sono per i vivi un legame tra vita-morte, e per i morti il ricordo di un passaggio, di un attimo in cui si è passati ad altra dimensione, pur rimanendo dentro quella predente. E il gioco potrebbe continuare all’infinito!

Sul Cinema: la relazione tra la tecnica e il fantasma (livello fantasmatico)
 Amenábar rende la multidimensionalità dell’alterità, usando una tecnica di realizzazione filmica che di fatto sorprende chi guarda: dall’inizio del film e fino ad un punto avanzato del racconto, il regista ci fa conoscere e vedere ciò che accade attraverso gli occhi di Madame Grace, la padrona di casa, la vedova di guerra, la madre severa, la figlia abbandonata sull’isola di Jersey, che vive in una dimora immensa e buia avvolta nella nebbia in attesa di avere la conferma definitiva della morte di Charles, marito adorato partito per il fronte. Grace vive con due figli che soffrono di xeroderma pigmentoso e non possono quindi esporsi alla luce del sole, ma, quasi colpevoli del loro male, devono obbedire alle regole severe imposte dalla madre sofferente, preoccupata per il loro bene, per la loro salvezza, per la tutela della loro sapienza ed educazione. Ma Grace, lo scopriamo alla fine, è un fantasma, quello che noi vediamo è attraverso gli occhi del fantasma che domina la scena. La sensazione dello/la spettatore/trice però non è questa, non ci sono riprese in soggettiva o altre tecniche che ci consentano di immedesimarci col fantasma. Ciò che si vede è la compresenza di più verità all’interno di una stessa inquadratura. Amenábar moltiplica e confonde le prospettive, differenzia i punti di vista sulla storia, non risparmia dubbi e allusioni a qualcosa che lo/la spettatore/trice proprio non può immaginare, fiducioso/a com’è nella guida monologante dell’immaginazione del regista. Lo/la spettatore/trice non può giudicare, perché tutto quello che vede non gli/le consente di assumere una posizione definita. E’ tutto vero, perché è immagine, dunque è tutto falso. Amenábar, moltiplicando le prospettive, riesce così ad allargare lo spettro del fantasmatico.

 La solitudine, l’abbandono 
Ma da dove nasce il bisogno di convocare i fantasmi in un film come The Others?  I fantasmi, se ascoltiamo ciò che dice Berta, rispondono solo se sono i vivi a chiamarli, a richiederne la presenza. Se i vivi chiamano i morti, quasi, presunti, consapevoli o meno è perché hanno bisogno dell’altro. Ne hanno bisogno anche se lo temono, come temono tutto ciò che non conoscono, che non è chiaramente definibile, identificabile, rintracciabile.
Nella storia di Amenábar i fantasmi sono convocati dalla voce della solitudine che nasce dall’abbandono e che richiede la presenza dell’altro/a. Grace vuole ricevere spiegazioni, farsi una ragione delle cose, spiegarsi il suo sentire, la sua paura, la sua attesa senza senso, senza direzione.
Grace diventa folle perché è sola, perché sente di non essere amata, di non poter amare, di non potersi abbandonare ad un amore rassicurante, che mentre pretende, vuole e desidera, riesce anche ad accogliere e rassicurare. In una casa senza luce, distante dal mondo, avvolta dalla nebbia, in cui aleggia il fantasma della malattia, del dolore e della morte, Grace attende Charles. Quando lo rincontra nel bosco, incredula, perché sapeva che suo marito era morto in guerra, lo riporta a casa, dimentica il motivo per cui si era allontanata dai figli. Dimentica il parroco, gli avvenimenti e i rumori inspiegabili che stavano infestando il suo piccolo mondo quotidiano; dimentica la paura, i sospetti, il pensiero impensabile per chi ha fede che nella sua casa ci sia il male, il diavolo. In fondo ci sono sempre i rosari da sgranare e la Bibbia da leggere. Poi si vedrà. La cosa più importante è riportare Charles a casa, accudirlo, curare le sue ferite e curarsi con lui dalla solitudine che si è tatuata sul corpo coperto da pesanti abiti neri, abiti del lutto e del dolore. Ma Charles in realtà è morto e, dopo poco, dopo aver detto a Grace che sa, che i bambini gli hanno raccontato il tremendo segreto della follia omicida della madre, non può far altro che andar via e lasciare di nuovo Grace da sola.
“Ti amavo. Io ero disposta a vivere in questa oscurità, in questa prigione. Ma tu no. Non ero abbastanza per te. Per questo sei partito. Non è stato solo per la guerra. Tu volevi lasciare me. Non è vero?” La domanda di Grace resta senza risposta. Tutto ciò che le resta è il sentimento di una nuova consapevolezza: quella di un dolore rimasto troppo tempo senza voce.

Tra non-morte e non-vita
The Others, il film che chiude il ciclo di proiezioni sulla non morte, apre così al ciclo di proiezioni sulla non vita, attraverso un movimento di rispecchiamento, che giocando sul confine della pellicola, riversa, ribalta, dissolve l’una nell’altra la non-morte-non-vita: in controluce, lo spettro della non morte, rivela l’ombra della non vita e viceversa, in modo differente, il ribaltamento si ripropone. Alle figure di genere della non morte, però, bisognerà cercare di far rispondere quelle della non vita. Se la dimensione fantasmatica, infatti, avvolge e attraversa tutto, è pur vero che il modo in cui il fantasma si manifesta in dimensioni diverse, che hanno culture e credenze diverse, dovrà portare a cercare altre parole, che sappiano raccontarla e quindi che riescano a farle assumere nuova luce o trasparenza, un diverso modo di stare sulla scena, altri linguaggi. E’ per non perdere la ricchezza del fantasmatico e non perderci, noi, nella neutralità di un potere senza volto, rischio a cui il fantasma espone, che pensiamo che si debba nominare nella sua differenza.

Giovanna Callegari
 
 

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