domenica 12 maggio 2013

Spot Lancia Y (2011) - Il lusso è un diritto

Decostruire la pubblicità: Lancia Y (2011)



C’era una volta la reclame. Un manifesto, un articolo, un messaggio, reclamizzavano un certo prodotto per renderne nota al pubblico l’esistenza. È questa, in fondo, la pubblicità: la diffusione pubblica di una notizia. La pubblicità era affidata a figure popolari come il pazzariello napoletano. Oppure venivano pubblicati inserti giornalistici che descrivevano accuratamente le caratteristiche del nuovo prodotto, in modo da convincere il pubblico della sua bontà e utilità. Poi si ricorse alla propaganda, invenzione del periodo fascista (pur se non invenzione fascista), consistente nell’arte di convincere, attraverso la comunicazione pubblica, intere masse. Manipolarne la psicologia – la psicologia di massa, come si prese a dire. La propaganda cominciò a sfruttare le tecniche della pubblicità a fini politici, inserendo però, nella stessa pubblicità, caratteristiche nuove, divenute poi tipiche della pubblicità commerciale come la conosciamo. Il messaggio, in primo luogo, che venne via via semplificandosi. La ricerca del controllo. L’imperativo diretto. Lo slogan. «I want you for the US Army».

Spot CheBanca! (2011)

L’inno alla dissoluzione: il carnevale della paura.


La campagna pubblicitaria di CheBanca!, curata da casiraghigreco&, si è imposta negli ultimi anni come una delle più definite e caratterizzate. La formula, standardizzata, è molto aggressiva. Una canzone, di solito molto nota, legata alla tradizione popolare italiana, facilmente riconoscibile ed orecchiabile, di cui presumibilmente il testo è ben noto, ricontestualizzata per veicolare il messaggio pubblicitario e le offerte della banca; un intero esercito di festeggianti coribanti che danzano e cantano, in perfetto stile Broadway; i colori vivaci e netti di un cartoon: sono questi gli elementi immediatamente riconoscibili nella serie di spot di questa campagna. I protagonisti, quasi sempre sobri e ben vestiti, tutto sommato abbastanza anonimi da potersi identificare intuitivamente con l’italiano medio, indicano in maniera immediata il pubblico a cui volta per volta lo spot si rivolge: professionisti, lavoratori, novelli sposi, pensionati, donne in carriera. Il musical che fa da cornice alla quotidianità suggerita da questi personaggi in giro per la città o nei propri uffici vuol essere ciò che ogni musical, in fondo, è sempre stato: un intrattenimento esorcistico che tenta di iniettare dosi di ottimismo nello stagnante mercato finanziario.

Spot Diesel (2010)


Be Stupid - Filosofia Diesel


La Diesel ha lanciato nel 2010 una massiccia campagna pubblicitaria molto essenziale: una scritta a colori molto accesi posta su sfondo nero, o in certi casi sullo sfondo di una foto che sottolinea il messaggio del testo.
L’intera “filosofia” proposta dalla Diesel è esplicata nel video che si trova sul sito della ditta nonché, ovviamente, su YouTube. Ma i manifesti che hanno letteralmente invaso la cartellonistica urbana mostrano soltanto alcuni frammento, decontestualizzati, in cui si ripropone con insistenza l’opposizione tra “smart” e “stupid”. Ovviamente la forza di questa pubblicità sta tutta nella diffusione, ovvero nella ripetitività del messaggio, e gode soprattutto della circolazione: insomma, come ogni campagna pubblicitaria, si avvantaggia tanto della critica – e forse tanto più della critica – quanto dell’approvazione.

Spot Ferrarelle (2009)


Il bicchiere mezzo pieno


Ricordate la campagna pubblicitaria della Ferrarelle di qualche anno fa? Quella del bicchiere mezzo pieno, per intenderci. Romantica, suasiva, elegante, efficace.
Si può notare una somiglianza fortissima con la campagna pubblicitaria della Fiat che avevamo già analizzato in questo laboratorio (http://proiezionifantasmatiche.blogspot.it/2013/04/spot-fiat-500-2007.html). In effetti siamo sullo stesso terreno: entrambe puntano su una forte emozionalità; entrambe utilizzano immagini (in cui il bianco e nero svolge un ruolo chiave) cariche di significatività psicologica; entrambe hanno un testo molto lirico, sottolineato da una musica semplice, romantica, molto suggestiva, stile Final Fantasy, per intenderci…

giovedì 2 maggio 2013

La pelle che abito

La pelle che abito di P. Almodóvar, col, 117', Spagna, 2011



Elogio della superficie, del colore, della forma autonoma dall’assenza, della follia dell’occhio che vuole solo guardare per guardarsi senza riflettere, per focalizzare la dimensione di un abitare ormai (o forse da sempre?) privo di vie di fuga, artificiale, sì, ma non per questo meno vero di quello autentico immerso nel flusso del tempo senza montaggio.
La storia che racconta Almodóvar mi lascia perplessa: mi sembra interessante, ma mi delude; mi piace quello che vedo: immagini che mi proiettano in quel cinema fatto di cura per l’estetica della comunicazione visiva; rapide sequenze che diventano contenitori di altre cose che amo e mi fanno sentire a casa (opere d’arte familiari, il bianco e nero che mi proietta nella dimensione corporea e poetica del cinema muto o di quello che vuole citarlo; la scrittura sul muro che mi ricorda le pagine dei libri o gli appunti ornati da disegni riflessivi che si fanno quando si ascolta sognando), ma il racconto mi respinge, a tratti mi sembra banale, scontato, prevedibile. E poi alcune immagini sembrano volersi prendere di gioco di me, ricucendomi addosso, attraverso la pubblicità en passant di noti prodotti in commercio, la quotidiana veste da consumatrice, che guarda in tv gli spot di trucchi o motociclette, mentre quello che cerco, quando guardo un film, è riconoscermi solo come consumatrice interna, come divoratrice di fotogrammi e di storie che emozionano e fanno pensare o ricordare, di musiche qualche volta, quando l’intento della regia non è quello di ventriloquizzare ciò che vedo, ma di renderlo dissonante, di creare strade parallele.