L'ombra del vampiro (Shadow of the Vampire), di E. Elias Merhige, 92 min., USA 2000.
Se il vampiro è spirito incadaverito, cadavere spettralizzato, paradosso deambulante nelle notti buie che calano sulle terre dell’inconscio, tecnica primordiale desacralizzata di rimemorazione della morte come non-essere esistente, il cinema è vampiro spettralizzante, acchiappafantasmi, creatore, evocatore di spettri, preso, anche lui come l’altro, dalla folle contraddizione del liminare, dalla domanda amletica sull’essere, dalla pretesa faustiana di immortalità, dalla nostalgia del vissuto, dal desiderio di memoria.
Nell’ambito del ciclo di proiezioni sul vampiro – figura di non-morto affatto peculiare nel suo genere, diremmo immagine “spettraverica” della non-mortità – il film di Merhige ha consentito un ampliamento della (meta)critica iconografica del cainita, aprendo ad una stimolante riflessione sul cinema come tecnica fantasmatica, declinabile al vampirico.
Relativamente al suo contenuto immediato, Shadow of the Vampire è la ricostruzione di un possibile backstage del Nosferatu (1922) di Murnau. Immergendosi nel clima politico-culturale che si respirava nei territori pulsanti di vita della Germania pre-hitleriana, Merhige realizza un vero e proprio tributo all’arte del «geniale cineasta tedesco» che – si legge nella didascalia esplicativa che precede le immagini di apertura – «gira il più realistico film sul vampiro mai realizzato ed aggiunge il suo nome a quello dei più grandi registi di tutti i tempi».
Di fatto Merhige, per realizzare la sua opera, mescola notizie sul film derivanti da fonti ufficiali e non, raccolte e conservate dalle tante storie del cinema. L’impressione suscitata dal film di Murnau, la personalità del regista e la forza interpretativa di Max Schreck – l’attore che dava corpo, volto ed ombra al Nosferatu e il cui nome, in tedesco, per uno strano gioco del destino, è traducibile come “Massimo Spavento” – avevano, infatti, notevolmente stimolato la fantasia dei contemporanei del regista, portando alla creazione di un gran numero di leggende sul film e su coloro che vi avevano preso parte. Molti di questi racconti popolari nascevano come risposte alle domande poste sulla “vera” identità di chi aveva impersonato (o forse, avrebbe dovuto impersonare?) il conte Orlok: Max Schreck aveva partecipato realmente alla realizzazione del film? C’era davvero lui sotto il pesante trucco quasi-espressionista di Nosferatu o forse era stato Murnau ad interpretare il conte Orlok? Schreck non era forse un vero vampiro? Teniamo a mente queste domande, quasi necrofile, poiché indicative di un certo gusto per il morboso, per il misterioso; o, anche, necrofobe, poiché desiderose di esorcizzare la paura, di allontanare il pericolo ignoto di cui si avverte la presenza. In controluce è possibile leggere nella loro sintassi spettrale l’esigenza di indagare il rapporto del regista con la sua terrificante creatura, il suo divo, il suo altro, il non-morto. Attraverso l’ occhio meccanico della mdp, è possibile pensare il rapporto dell’umano con la morte.
A proposito di questo mi sembra interessante riportare una nota sulla biografia del brookliniano Merhige, regista di Begotten (1991) – tra le massime espressioni del transgenere weird – e, a quanto pare, appassionato alla rappresentazione cinematografica di situazioni fuori dagli stereotipi, al limite surreali o astrette, in cui si verificano stravolgimenti spaziali e temporali, funzionali alla narrazione di stati d’animo, emozioni e pensieri più che di soggetti (il weird, appunto, “il bizzarro”, proprio di una certa cinematografia horror o di fantascienza). Scorrendo la sua filmografia, risulta evidente l’interesse di Merhige nei confronti del rapporto tra morte e generazione e dell’aspetto macabro legato alla vita. Terreno propizio, dunque, all’impianto di un’opera evocativa della non-morte alla Murnau.
Il cinema come tecnica fantasmatica
Murnau/Malkovich, Orlok/Schreck/Dafoe, Ellen/Greta/McCormack nel film di Merhige sono fantasmi e lo sono sia in quanto personaggi/attori rievocati, chiamati in vita dall’oltretomba, sia in quanto immagini di corpi viventi (gli attori, l’attrice di Shadow) non presenti al momento dello spettacolo. Anche Bram Stoker è un fantasma che aleggia dentro e fuori il set degli Studios di Berlino, dentro e fuori le sequenze del film. Questo è il primo aspetto del carattere fantasmatico del cinema, che genera rappresentazioni destinate a vivere in eterno tra la vita (il momento della proiezione) e la morte (la fine del film); prive di sostanza poiché incorporee; destinate al tempo dell’intermittenza che è quello della spettralità, della frequenza. Anche il supporto originario di impressione dell’immagine cinematografica risulta intrisa dell’elemento fantasmatico: la pellicola è trasparente, segnata da luci ed ombre, spettrale. Da questo punto di vista è significativo che Murnau nel suo Nosferatu abbia pensato di utilizzare il negativo della pellicola per rendere la spettralità della natura attraversata da Hutter nel suo viaggio verso il castello di Orlok o forse per dare la sensazione di un mondo capovolto in cui l’istinto domina sulla razionalità (P.G. Tone, Murnau, Lindau 1974). Un altro aspetto fantasmatico rintracciabile nella tecnica cinematografica si può derivare prendendo a prestito una riflessione sul fantasma che Derrida fa nel suo Spettri di Marx: il fantasma si presenta sulla scena del mondo quando i tempi sono fuori di sesto, out of joint scrive Derrida, riprendendo la scena dell’Amleto di Shakespeare, in cui lo spettro del re di Danimarca compare al figlio Amleto, chiedendogli di vendicare la sua morte, di sottoporsi ad un giuramento, di sottostare alla sua ingiunzione. Il fantasma si presenta quindi per chiedere giustizia. Nella rappresentazione cinematografica – ma il discorso si potrebbe ovviamente estendere a tutte quelle tecniche che avanzano una pretesa di registrazione del reale – questa richiesta di pareggiare i conti, questa domanda di giustizia, si potrebbe leggere analizzando il rapporto tra la rappresentazione e la realtà a cui essa si riferisce. Non si tratta solo di chiedere quanto l’immagine corrisponda al suo referente. Si tratta di capire come si modifica la domanda sulla giustizia quando è pensata in relazione al fantasma e poi di chiedersi chi sia in definitiva davvero il fantasma che chiede: il reale o la sua immagine?
In Shadow of the Vampire si definisce inoltre una particolare declinazione dell’elemento fantasmatico, che mostra la sua relazione sia con il vampiresco, che con il diabolico. Riprendendo un aspetto certamente romantico della riflessione sul rapporto tra arte e vita e probabilmente registrando la paura che il cinema – possibile monopolizzatore diabolico nella rappresentazione del mondo, forma d’arte popolare intrisa di racconti, voci e paure – aveva generato alla sua nascita nelle altre arti, Merhige ci dice con forza che il cinema può togliere la vita, succhiare il sangue del vivente, trasformarlo in altro, offrendogli in cambio l’immortalità. Il classico patto con il diavolo, in pratica. «Il pubblico teatrale riesce a donarmi la vita – dice Greta – mentre quella cosa (indica la mdp) me la toglie». «Consideralo un sacrificio per la tua arte» risponde Murnau, che intanto il patto con il diavolo-vampiro lo aveva fatto davvero e presto sarebbe stato chiamato a rispettarlo, neppure a dirlo, sacrificando l’ignara e un po’ “svampita” Greta!
Fantasmatico, vampiresco e diabolico, Shadow of the Vampire lo è anche per l’uso interessante che fa della tecnica cinematografica, non particolarmente innovativa, ma efficace, in grado di strutturare il costrutto (il film) in modo sapiente. Prima di tutto l’alternanza di colore e B/N e l’uso di didascalie modello cinema muto, che aprono ad un pensiero stravagante: anche la Germania pre-hitleriana – in cui la questione politica della relazione tra caos e dominio generava al cinema la “parata di tiranni” di cui è icona anche Nosferatu, (S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, Lindau 1947) – era a colori, mentre B/N ne è l’immagine, la rappresentazione, il ricordo. Poi la tecnica “dell’occhio sull’occhio”, ovvero la realizzazione di scene in cui la mdp di Merhige riprende la mdp di Murnau oppure la mdp di Murnau è puntata su quella di Merhige oppure sull’occhio di Nosferatu. Chi guarda è guardato, si può specchiare, riflettere, sdoppiare, anche se non sempre la sua immagine gli/le è restituita.
Il doppio, quindi, e la memoria …
Tra Amleto e Faust: il tema del doppio attraverso un breve confronto tra il Nosferatu di Murnau, il Murnau di Merhige e il diavolo-vampiro di George Méliès
L’associazione del fantasmatico al vampiresco e al diabolico riporta Merhige a Méliès e ci consente di approfondire le tematiche emerse finora: il rapporto con l’alterità declinata nel tema del doppio e la relazione tra tecnica e memoria.
L’opera di Méliès a cui ci riferiamo è Le manoir du diable (tr. it. Il maniero del diavolo), cortometraggio realizzato dal regista francese nel 1896. Le manoir dura appena 3’, sufficienti a far nascere, attraverso la prima rappresentazione del vampiresco con cui Méliès ammanta il diavolo, il cinema horror. Streghe, fantasmi, scheletri affollano la pellicola. Il diavolo, protagonista della breve sequenza di fotogrammi, compare sulla scena svolazzando, sotto le spoglie di un pipistrello, e scompare alla vista di una croce.
Al di là dell’interesse filologico nei confronti della pellicola di Méliès, ciò che affascina notevolmente è come Merhige con il suo film riesca a gettare un ponte tra l’espressionista Murnau e il mago Méliès. Esplicitando l’elemento diabolico, infatti, Shadow of the Vampire fa emergere l’intento comune ai due registi di rappresentare ciò che non si vede per dire dell’altro di sé come doppio nell’immagine. Confondendo il confine tra vita e morte, facendo rientrare nello spazio dell’inquadratura ciò che si sogna e si immagina, e ciò che si sente in profondità, che si teme, che si dimentica, lo sguardo divertito di Méliès e quello tenebroso di Murnau cercano (l’)altro.
In Murnau la riflessione sul doppio si realizza nel rapporto Hutter-Nosferatu: il tranquillo e solare impiegato di Wisborg intraprende un viaggio che lo porta ad entrare in contatto con la parte più profonda e sconosciuta di sé, con la sua parte pulsionale, con l’istinto di morte, con Nosferatu, appunto. Hutter tenterà di recuperare l’equilibrio perduto tornando da Ellen ma scoprirà che la donna, proprio in quanto tale, ha già intrapreso il suo viaggio verso la scoperta della parte di sé che Hutter rifiuta. Ellen da lontano avverte il pericolo a cui Hutter è esposto – il potere telepatico dell’amore! – ed è disposta a sacrificare la sua vita affinché Nosferatu, da cui Ellen pure è attratta, sia saziato e allontani la sua ombra dalla tranquillità borghese di sempre.
Merhige esplicita invece la riflessione sul doppio attraverso la coppia Murnau-Nosferatu, esplicitando ciò che era possibile solo pensare guardando Nosferatu, ovvero che il regista tedesco avesse messo in scena, attraverso il suo film, le sue angosce, le sue paure, il suo desiderio di rappresentarsi come altro. «Quando hai scritto questa sceneggiatura sentivi di esorcizzare i tuoi demoni» – dice Murnau/Malkovich a Henrick/Gillett – «adesso io ho il mio».
Il fantasma di Orlock: generazione e memoria
Suggestiva è anche un’altra riflessione che deriva dal tentativo di rispondere ad una questione che nel film di Merhige resta aperta: qual è il fantasma di Orlok?
Due le ipotesi più interessanti:
Orlock non può generare, ciò che gli manca è la possibilità di una discendenza, la sua parabola è ormai ascendente, il suo fantasma è il futuro. A questa ipotesi si collegano una serie di sequenze del film alquanto evocative e decisamente significative per il ruolo che hanno nello sviluppo del plot: la scena in cui Hutter per incontrare Orlock per la prima volta deve inoltrarsi in un antro buio e pauroso (non ricorda forse ciò che Freud dice della sessualità femminile?); la scena finale del film in cui il vampiro ed Ellen muoiono (le inquadrature di Merhige si soffermano sui meccanismi della mdp che si muovono in modo concitato, ricordando la fase culminante dell’atto sessuale).
Alla prima ipotesi si collega la seconda. Il vampiro sta perdendo la memoria, non ricorda il suo passato. Il suo fantasma è l’origine. Il non sapere più di sé comporta la perdita delle forze, il compromesso con il presente, la degenerazione, l’imborghesimento. Nell’epoca della decadenza Nosferatu torna a vivere – certo, a suo modo… da non-morto – quando Murnau/Malkovich gli da il libro di Stoker da leggere. Questo passaggio è interessante: il vivente chiede al non-morto di recuperare memoria di sé. La razionalità chiede all’istintualità di non assopirsi per sempre, di non appiattirsi. La vita dialoga con la morte, la memoria con l’immagine.
Giovanna Callegari
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