Non ci accorgiamo delle cose intorno a noi per ignoranza. La percezione che abbiamo delle cose è direttamente proporzionale alla conoscenza che abbiamo di esse. Appena studiamo qualcosa, ce ne interessiamo, entra a far parte della nostra vita, improvvisamente la vediamo spuntare in articoli di giornale, passaggi in radio, servizi in televisione o in semplici discorsi tra la gente. La cosa, ora conosciuta, sarebbe comunque stata presente in quegli articoli di giornale, passaggi in radio, servizi in tv, solo che prima non ce ne saremmo accorti, non l’avremmo percepita, sarebbe sfilata via, lontana, da noi. Questo porterebbe già ad una prima riflessione: da quante cose “non-vive” (l’altra faccia della non-morte) siamo circondati? Ma non è questo l’argomento su cui voglio soffermarmi. Perciò torniamo a noi. La relazione tra percezione e conoscenza che ho cercato di spiegare è provata proprio da quanto sta accadendo nel rapporto tra me e la non-morte in questi giorni. Prima del nostro cineforum l’argomento non-morte per me non esisteva e le sue figure erano solo vaghissime espressioni di una cinematografia di terz’ordine. Adesso mi vedo spuntare la non-morte – zombi, vampiri – ovunque, e ciò accade non metaforicamente, ma concretamente: sto notando che la non-morte, e con essa i suoi termini e le sue figure, è argomento assolutamente presente nella nostra cultura e nella sua espressione dominante: i mezzi di comunicazione. Continuamente mi accade, come sopra, di leggere articoli di giornale o di ascoltare passaggi in radio e servizi in tv intrisi di non-morte. Proprio vedendo un servizio del Tg2, l’altra sera, la mia fervida immaginazione ha avuto un sussulto. Il servizio riguardava il “denaro zombi”- l’espressione usata è stata proprio questa – cioè quel denaro che alcuni morti continuano a produrre a beneficio dei loro eredi. Indovinate un po’ chi era il non-morto più vivo, presente e ricco di tutti? Ovviamente Michael Jackson. Dico ovviamente, perché in quella locuzione è racchiusa tutta la mia folle riflessione che, tra parentesi, comincia a darmi una vaga idea del perché, pur non amando in modo particolare Michael Jackson, appena saputo l’argomento del cineforum abbia caldeggiato con tanto entusiasmo il video “Thriller” come colonna sonora portante dei nostri film. Evidentemente dietro, da qualche parte, e del tutto inconsciamente, già esisteva una sottile linea riflessiva che ci univa.
Durante il dibattito seguito alla proiezione di Zombi / Dawn of the Dead di Romero, agganciandomi all’idea comune che in realtà gli zombi fossimo noi, avevo avanzato l’ipotesi che gli zombi non fossero altro che una nostra produzione o, meglio ancora, una nostra generazione. L’idea dell’esistenza di qualcosa come il “denaro zombi”, conferma l’ipotesi, in quanto inevitabile prodotto generato da vivi/morti/non-morti. Cosa potrebbero produrre degli zombi in questa società se non “denaro-zombi”? Il discorso si fa però interessante se lo si lega alla figura di Michael Jackson. Lui, come tutti noi, è uno zombi. Se però non ci limitiamo a questo e prendiamo in considerazione la sua vita e, soprattutto, le sue trasformazioni fisiche in vita, forse scopriamo una cosa importante e, allo stesso tempo, sconcertante: Michael Jackson è il primo tra gli zombi ad aver infranto il confine tra vita e morte. Egli è il primo zombi che passa, che si materializza ancora in vita, cioè che non ha aspettato di dover morire per trasformarsi. A questo punto le sue banali giustificazioni, relative allo schiarirsi della sua pelle e al cambiamento dei tratti somatici, assumono un valore diverso: direi di verità. Egli continuava a sostenere di essere vittima di una strana malattia, forse riconducibile ad una gravissima forma di vitiligine, che lo stava trasformando. Immaginiamo che fosse vero: era uno zombi che si stava manifestando già prima, al di qua, della linea di confine tra vita e morte. Dunque la chirurgia estetica non c’entrava proprio niente.
Ma della sua condizione, del significato della sua trasformazione era consapevole? O ne era semplicemente vittima? Si rendeva conto di cosa fosse? E di cosa stesse diventando? Immaginiamo per un momento di si.
Lo zombi aveva paura! Paura soprattutto di cosa potessero fargli i vivi. Dava pertanto delle risposte “plausibili” per tenere nascosto il suo stigma, la sua diversità; altrimenti i vivi lo avrebbero sbranato, studiato, vivisezionato e non solo attraverso i media; in quel caso la chirurgia ci sarebbe entrata, eccome! Consapevole, lo zombi aveva paura anche dei virus e delle malattie degli ancora-vivi. Ecco, così, spiegate anche le sue maschere e la camera iperbarica. Mettiamo il caso che invece la sua consapevolezza fosse pervasa dal rimorso, dal senso di colpa, in quanto il passaggio da vivo-zombi a zombi non era stato ancora completato. Egli si sentiva ancora appartenente al gruppo dei vivi; non aveva però il coraggio di confessarlo apertamente, magari per paura delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Decide, quindi, come spesso accade, di produrre degli indizi che possano condurre alla sua colpevolezza. Gira il video “Thriller”, avvertendo, così, l’umanità intera che egli si sta trasformando in uno zombi, nella speranza che ci sia ancora la possibilità di fermare, anche con il suo sacrificio, l’epidemia di cui egli è il primo caso. Ovviamente nessuno lo prende sul serio…
Terza ipotesi. Ormai si sente più uno zombi che uno stupido vivo-zombi. Sicuro di sé, e della stupidità dell’umanità, si diverte a prendersi gioco di noi. Gira il video, consapevole che non saremmo mai stati in grado di comprendere il messaggio e che lo avremmo preso semplicemente per un video musicale, rassicurati nelle nostre non-vite esattamente come la ragazzina nel video. E così accade… mentre egli ci regala un sardonico, mefistofelico sorriso. In attesa degli altri…
Da allora sono passati trent’anni. Mi guardo intorno, sono passati trent’anni… ed è forse per questo che adesso comincio a vederli…
Marco Restucci
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