venerdì 1 luglio 2011

Koyaanisqatsi

Koyaanisqatsi, di G. Reggio, 83 min., colore, USA 1983
  
Un capolavoro. Immagini suonate sul tamburo del mondo. Un lungometraggio impressionato dalle profezie del popolo Hopi, tramato dalla musica di Philip Glass, girato in 6 anni. «Koyaanisqatsi non si sofferma su un tema in particolare, così come esso non racchiude un significato o valore specifico. Koyaanisqatsi rappresenta, in effetti, un oggetto animato, un oggetto nel tempo che avanza, il cui significato dipende dallo spettatore. L’arte non possiede un significato intrinseco: in questo sta la sua potenza, il suo mistero e, di conseguenza, il suo fascino. Così, a prescindere dalla mia personale intenzione all’atto della creazione di questo film, sono consapevole del fatto che qualsiasi significato o valore assunto da Koyaanisqatsi si deve unicamente allo spettatore. Il ruolo del film è quello di provocare, di sollevare interrogativi che solo il pubblico è in grado di risolvere. Questo è il maggiore valore di qualsiasi opera artistica: non un significato predeterminato, bensì un significato dedotto dall’esperienza dell’incontro. L’incontro è al centro del mio interesse, non il significato. Se il fine è il significato, allora la propaganda e la pubblicità rappresentano la sua giusta forma. Così, nel senso dell’arte, il significato di Koyaanisqatsi coincide con qualsiasi cosa si voglia leggere in esso: in questo sta la sua grandezza».
Deserto di senso? E tutti noi, certo, vorremmo credere agli artisti quando fingono l’assenza precostituita di senso. Del resto non è colpa loro: cos’altro potrebbero dirci? Sarebbe meglio smettere di fargli domande stupide. Godfrey Reggio si mette all’opera dopo 14 anni di reclusione mistica. Sarà illuminazione, ma di certo anche umana troppo umana preghiera.




1. Vita folle:  Mostrare il reale come altro.

Oltre le frontiere dell’estetica della percezione c’è un mondo alla rovescia che crea miraggi. Il tempo e la luce determinano l’insensatezza della classificazione, per la quale le nuvole sono fiamme che divorano il cielo, l’erosione delle rocce rivela architetture gotiche, l’acqua disegna aloni di luce. Nell’occhio potente e cieco del ciclone tecnologico, dello strumento, tutto appare diverso da ciò che è e se nel vasto orizzonte naturalistico l’universale della natura nasconde il particolare dell’immaginario umano, viceversa accade per l’armamento tecnologico culturale: un aereo diventa un pagliaccio, i cavi elettrici disegnano ragnatele nel cielo, i trattori divorano i campi come insetti, tubi su costoni e montagne strisciano come serpenti di ferro. La bellezza e l’inquietudine hanno lo stesso volto: quello di capovolgere il reale, di offrire nudi un inusitato campo visivo.  È la potenza del fuori. Poesia degli occhi che estrania ed entusiasma. Uscire dall’ottica occidentale di progresso e provare come un brivido verticalità impossibili. È la pura immagine, ingannevole, che apre l’orizzonte euristico e lo frammenta in mille possibili significati. Capovolti, risignificati, eppure sempre lì, perché velocizzate le attività umane sono identiche a quelle degli insetti. Se non che la litania visiva lentamente dalla potente bellezza si va mutando in una gabbia di luci al neon e suoni smorzati. Si scopre il piano, lentamente sottostante, di stratificare l’impatto violento della maschia bianca occidentalizzazione. Il disegno affronta il silenzio sacro delle caverne e assorda con il suono dei macchinari i colori di spazi sconfinati. "È T.J. o L.A.?" è certo che a volte lo dimentichiamo. Dall’assoluto sacro deserto l’uomo, maschio adulto, si parte, va macinando millenni fino alla mistica catena di montaggio alla perfezione di circuiti, rete. Come la città. Come il deserto.

2. Vita in tumulto: Darwin e l’escatologia Maya

Non abbiamo inventato nulla! Tra cultura e natura ci sono fiumi di parole, acque burrascose e oscure, create da un genio malvagio per vederci beati del progresso. Non bisogna avventurarsi con spavalderia, credendo di poter parteggiare, addirittura, per l’una o l’altra sponda se non vogliamo vederlo  ridere alle nostre spalle.
Bisogna infilare la mano nella scatola senza fondo dell’alterità, setacciare l’escatologia non abramitica, anche se può far senso sfiorare con la mano serpenti piumati. Prima che cavalieri e angeli misericordiosi compiano la loro apocalisse, di senso questa, verso la nostra capacità di immaginare in più dimensioni. «Nello stupore della tassonomia, ciò che balza subito alla mente ci viene indicato come il fascino esotico d’un altro pensiero, è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare Tutto questo» (M.F.). E se fosse tutto questo, l’impossibilità di pensarsi diversi e non pensare il diverso? Pensarsi diversi eppure uguali. Nell’escatologia ciclica dei Maya ogni essere vivente creato è destinato a vivere il proprio olocausto. In un continuo tentativo di giungere alla perfezione l’uomo, che è il quarto tentativo, (quattro, come le europeissime età medievali) attende anche lui la sua fine. Altri prima di lui, scappati forse a ritroso nel tempo dal bestiario Borghesiano, l’hanno affrontata: 1) soltanto animali 2) persone di ghiaia trita oppure api e formiche 3)  scimmie 4) esseri umani. Siamo giù dal podio, che classifica le scimmie, prima dell’animale razionale. Una discendenza molto più esaustiva di quella darwiniana che come sempre si picca di trovare quella scimmia da lui stesso messa dietro al cespuglio. Quattro età ed ognuna avrà una fine. Perché il tentativo deve essere perfezionato e la tribù Maya accetta progresso e distruzione, scandalosamente insieme, in equilibrio.
Sennonché l’occidentale non vuole morire. Non vuole l’olocausto. Non nella sua età. Si impegna ad una virtuale tensione alla vita eterna (attrattiva vampirica che il secondo film della trilogia Powaqatsi incarna in quanto rappresentazione di una forma di vita che succhia l’energia ad un’altra). E in questa tensione, allora, che cos’è la cultura se non la parte molle della vita tirata all’infinito? Che si assottiglia si deforma come pasta di farina, ma elastica si prova a non spezzarsi mai: una plastica tagliatella di vita che cerca di arrivare dove? Al punto improprio, direbbe Onoff.

3. Vita in via di disintegrazione : Laica escatologia contro sacra tecnologia?


E gli anni si accorceranno e diventeranno mesi e i mesi giorni e i giorni ore.

La sibilla tiburtina recitava così la litania del tempo reale, sgranava il rosario della secolarizzazione. Si può sfuggire allo slittamento tra la fine e il fine? A Cassandra è relegato l’ingrato compito di custodire il sacro sotto la luce abbagliante dello spirito e della metafisica. Quel panneggio ombrato che cerca di definire limiti e contorni può ricongiungersi con l’accelerazione secolarizzata della tecnologia, diretta conseguenza della mistica cristiana? La nanotecnologia del dio che è nei dettagli. La disintegrazione che si produce è data dall’espressione matematica Dio-madre+desertoxsenso:vita a tutti i costi-tempo+tempi. È l’attrito tra natura e cultura a rendere il quadro più complicato di quello che è. A noi basta dire in fondo che sono vere entrambe. Chi non sa ascoltare senza il filtro del dispositivo l’escatologia odierna non è altro che un sacerdote del progresso.  Ma a favore dell’andare, del movimento, c’è anche il freno. È forse un gioco di equilibrio questo attrito tra l’indignazione e l’esaltazione. Il troppo tendere di una parte e l’immobilità dell’altra spezzano, frantumano disintegrano. Cosa? Il senso della vita? La vita stessa? Il tempo, il suo tempo? L’immaginazione?
No, forse il respiro. Perché è profondo quello dello  sciamano Hopi, mentre da questa parte l’aria a piccoli sorsi viene consumata.

4. Vita squilibrata:  La crepa cosmica e il trivello vigoroso

Cosa si è separato? 
Per gli orientali la follia sta nella divisione, mentre in occidente il discernere è atto fondamentale di comprensione. Il femminile. La vulva rocciosa della stabilità, della crudeltà e del possibile è stata trivellata dai pistoni di ferro della speculazione. Se prima l’estensione ci consentiva di aprire le braccia come a spiccare il volo adesso la penetrazione, lo scrutare a fondo sembra  l’unico veicolo di conoscenza e dominio. Dominare per comprensione, dominare per penetrazione. Se la roccia è frantumata dalla macchina indirizzata a prosciugare le viscere della terra la vita si squilibra. Si cancellano parole che non resistono al tempo delle sferzate delle verghe degli schiavi, fino alle catene di montaggio. La serie e il capitale. La macchina e il suo scopo. Il femminile e il maschile. Non può non scoppiare il congegno

5. Condizione di vita che anela ad un altro stile di vita: la profezia come fantasma della storia

Chiamare, interpellare il fantasma del possibile. Nell’intelligere storico la profezia è insieme strumento euristico e narrativo. Al resoconto essa salta tagliando la periodizzazione di modo che sia sempre vera perché ripresa compresa, solo quando la percezione del tempo presente la chiama a se come ricordo del futuro. Il pallido Cortez  parla con i panni bianchi che mai possono invece dialogare con l’indigeno, eppure accoglieranno tra la loro trama la storia del massacro. Una storia che ritornerà ad agitarsi. Storia e profezia brillano della stessa luce e non potranno mai incontrarsi, ma la tensione che le porta l’una al corpo dell’altra, è come la bocca allo strumento a fiato, da cui si libra il canto rituale del mondo.

Marina Nardone

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