domenica 17 febbraio 2013

Il segno di Venere

Il segno di Venere, di Dino Risi , B/N, 93’, It, 1955




"Questa è la cucina e qui comando io"
(Zia Tina)

Il segno di Venere, potrebbe forse essere definito come un film “protofemminista”.

Dino Risi propone, attraverso la storia di due cugine nella Roma degli anni 50, la parabola di un femminile che, declinato apparentemente all’opposto, non trova risposte ai propri sogni e rimane vittima di un mondo (maschile) che non fa che sfruttarlo.

Cesira (Franca Valeri) è la cugina milanese, bruttina ma indipendente, di Agnese (Sofia Loren) bella meridionale, incapace di trovare un lavoro onesto. Il film segue le loro vicende nel rapporto con gli uomini, fermi nei propri vizi e difetti come siluette di nessuna sostanza, ricalcanti altrettanti tipi umani: un ladruncolo mammone (Alberto Sordi), un superficiale fotografo rimbambito, più che conquistato, dalla procacità di Agnese (Peppino De Filippo), un poeta squattrinato, approfittatore e impenitente (Vittorio De Sica), e infine il bello e prestante atleta del rispetto che cade nella trappola più comune pur di concupire l’ingenua bellezza (Raf Vallone).


Le due donne sembrerebbero inseguire traguardi opposti tra loro, cercano ciò che non hanno: Cesira il matrimonio e l’amore, Agnese, cui si prospetta per volere della famiglia un futuro da donna sposata, il lavoro. Se anche la cosa fosse evidente allo spettatore, esse non vedranno mai convergere le proprie esigenze verso l’unico punto di fuga di un riconoscimento; si troveranno sempre a stare sui due opposti lati di una barricata che non sono state loro a costruire. Per poca consapevolezza probabilmente, del resto, persino la Cesira che aveva le carte giuste per decidere autonomamente della propria vita si è lasciata coinvolgere dal meccanismo. Il peccato consiste allora, forse, nel loro riporre speranze all’esterno? Nel ricercare appunto la relazione? L’amore?

Manca negli uomini, che le due donne si trovano a frequentare, la possibilità di trovare una risposta di dialogo alla loro richiesta di autenticità.

È perché sono gli anni ’50… e le donne non avevano che da poco conquistato il diritto a votare…? È perché per le donne esistono solo gli “ordinari”, come direbbe Cesira al massimo sdegno, degli altri, di quelli che sono innamorati davvero, nemmeno si accorgono? O forse per un innato autolesionismo che le porta ad aggrapparsi a quella mano che vuole annientarle?

Giuste le osservazioni espresse durante il dibattito che trovano ragion d’essere già solo nella pluralità delle voci che le comunicano, ciò che sappiamo, però, è che gli anni Cinquanta sono passati da più di mezzo secolo ma ancora Agnese e Cesira si sentono sole. Qualche volta riescono a parlare e a capirsi tra loro, o a trovare un uomo capace di amarle come persone libere. Tuttavia capita loro anche di pensare che questo succeda ancora troppo di rado e a lottare contro una rivalità subita.

Nel film, se le donne non riescono ad ottenere quello che vogliono, gli uomini continuano a barcamenarsi nel proprio miserevole quotidiano. L’unica “evoluzione” è rappresentata dal matrimonio di Agnese, che costituisce in effetti il perfetto cliché del matrimonio riparatore: Il giovane sposo è in qualche modo incastrato dalla famiglia della ragazza ed è costretto a sposarsi. Il mondo maschile appare chiuso su se stesso e senza orizzonti, non sembra mostrare il bisogno di rompere l’equilibrio, seppur insoddisfacente, sul quale si regge. Ci si chiede allora se la comunicazione e la relazione siano bisogni declinabili anche al maschile. E s’impone una domanda, ma gli uomini si riconoscono in questi modelli?


Di fronte a una chiusura del maschio, che sia fatta di silenzio infantile o di virile sproloquio, possiamo solo sperare che questo alieno, come pure è stato definito durante la discussione, non sia venuto esclusivamente a conquistare e a distruggere. Sarà autolesionismo, ma viene ancora voglia di andargli in contro a conoscerlo, il paradosso è che se le cose dovessero andar male sarà proprio lui a dirti: “te lo avevo detto!”

Sarà possibile, a distanza di quasi sessant’anni, nell’epoca in cui anche le donne vanno a fare la guerra, che l’uomo smetta di voler essere duro d’apparenza e che colga la crisi dei ruoli come una possibilità da non lasciarsi scappare.

Viene però anche da pensare al Zero dark thirty di Kathryn Bigelow, citato durante il forum, in cui la protagonista, impegnata per tutta la durata del film nella caccia a Bin Laden, alla fine lo trova e lo uccide. Il touché da dover ammettere, senza abbassare la china, è che la protagonista di questo recentissimo film dopo aver compiuto finalmente il suo dovere non sa più dove andare, lasciando percepire tutto il vuoto della sua esistenza.

Ma ancora qui è l’imposizione, la consapevolezza o solo la difficoltà di intendere e parlare due lingue differenti che si somigliano?

Roberta De Gregorio




"Quel maschio fragile che non accetta limiti"
di Massimo Recalcati da La Repubblica 12 Mag 2012

La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell'umiliazione dell'insulto e dell'aggressione verbale.
La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta. Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, non è una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l'umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’umano è l'esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c'è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell'altro. Per questo la condizione che rende possibile l'amore - come forma pienamente umana del legame - è - come teorizzava Winnicott - la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite.

Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l'ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine. Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l'esterno come luogo di minaccia.

Il passaggio all'atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell'unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto - di vita e di morte - sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione. Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per te e dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione).

Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l'incontro con l'Altro, mentre riducendosi a pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell'incontro viene rotto da un vandalismo osceno. Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C'è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l'incarnazione del limite, ma è anche l'incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente - simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine.

Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull'avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull'appropriazione dell'oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sulla "idiozia del fallo", quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all'ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente "etero"; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l'incontro con questo godimento "infinito" dichiarandole "tutte puttane". È un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riescono a governare.

Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell'illuminismo assimilavano la donna all’ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.

È di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. È chiaro per lo psicoanalista che questa violenza - anche quando viene esercitata da uomini potenti - non esprime solo l'arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell' amore, quando c' è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l'altro. Per un uomo amare una donna è davvero un' impresa contro la sua natura fallica,è poter amare l'etero, l'Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola.

"Da dove nasce l’odio maschile per le donne?" di Luisa Muraro (pubblicato sul blog Io donna di Marina Terragni il 9 Mag 2012)

Il contributo di Luisa Muraro si presenta come una risposta a un'articolo di Massimo Recalcati pubblicato su la Repubblica il 5 Mag 2012.

Lunedì sette maggio, verso le sette del pomeriggio, sono entrata in un bar e ho ascoltato, dalla televisione accesa, la notizia di una donna uccisa dal marito in seguito a un “banale litigio”, a Napoli. Un’altra, un’altra e un’altra ancora. Nel bar è corso un brusio. Da dove nasce l’odio maschile per le donne? Che cosa nasconde?

Si tratta di un odio abnorme, che tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l’ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità.

In passato, le nostre madri e antenate hanno speso tesori di pazienza e d’intelligenza per corrispondere alle esigenze maschili senza diventare sceme o pazze. Non tutte ci sono riuscite.

Oggi molte, la grande maggioranza, non ci stanno più. Si sentono libere e intendono comportarsi di conseguenza. Risultato: un crescendo di violenza maschile.

Fulvia Bandoli dice la cosa giusta quando, nell’appello agli uomini del suo partito, mette sotto accusa il loro atteggiamento d’ignoranza e disattenzione verso la novità storica della libertà femminile. L’ostacolo maggiore in questo momento storico è, infatti, l’arretratezza mentale e morale di uomini che hanno usato la propria posizione privilegiata per non cambiare. Ne cito uno soltanto, il più illustre della vasta schiera: Dominique Strauss-Kahn. Che si è messo fuori gioco con i suoi stessi eccessi. I mediocri, invece, resistono incollati ai loro posti.

“Quel maschio fragile che non accetta limiti” s’intitola il contributo della psicanalista Massimo Recalcati per fare luce sul tema. La psicanalisi comincia dunque a registrare che gli uomini arrivano impreparati all’appunto con la libertà femminile. Si tratta, suppongo, di un contributo iniziale. Per considerarlo un inizio promettente, e non la testimonianza d’obbligo in questo momento di mobilitazione anche maschile, mancano secondo me due spunti.

Primo, Recalcati non parla a partire da sé, uomo di sesso maschile. E tace ogni possibile legame tra la violenza sessista e la sessualità maschile con le sue ordinarie caratteristiche. I violenti vengono da lui compresi dentro un quadro patologico. Ma non è così. O così non risulta all’esperienza di donne che hanno conosciuto la violenza maschile. Ci sbagliamo noi o l’analista sta esorcizzando la sua propria violenza?


Secondo, Recalcati ignora l’incidenza della realtà storica. Parla, per esempio della “legge della parola” che unisce gli esseri umani, ma viene calpestata dai comportamenti violenti. Non so l’origine di questa formula “legge della parola”; se l’espressione ha un senso, non può non far pensare che le donne sono state escluse per legge dalla presa di parola in pubblico, dalla scrittura e dalla lettura, dal parlamento… Con innumerevoli conseguenze ancora vive e attuali nei rapporti fra i sessi. Contro cui, temo, l’ideale legge della parola enunciata da Recalcati non ha voce.

Ancor più pesa sullo stato dei rapporti fra i sessi il fatto che il cosiddetto contratto sociale, fatto per tutelare i cittadini dalle violenze dei prepotenti, non ha mai tutelato le donne dalla violenza privata maschile. Mai, in nessun paese del nostro civile Occidente.

Come si possa leggere insieme, ma senza fare confusione, la realtà storica e quella soggettiva, io non so, ma che si debba tentare, non ho dubbi, perché l’una e l’altra in me sono scritte insieme, sulla stessa pagina.

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