Questi Fantasmi!, di E. De Filippo, commedia in tre atti (edizione televisiva), b/n, Italia 1962.
«C’era un vecchio con la barba che veniva a casa quando ci trovavamo tra amici perché raccontava di essere uno specialista di sedute spiritiche. Per convincermi, mi diceva che spesso, tornando a casa sua, trovava un tipo che usciva e lo salutava. Diceva di essere un fantasma. Io gli chiesi: Lei è sposato? E sua moglie non dice nulla? Non se ne accorge – mi rispose – non lo vede. Così nacquero
Questi Fantasmi!»
[1]
Eduardo compone e mette in scena la commedia nel 1946
. La prima, all’Eliseo di Roma, è un trionfo, e trionfali saranno tutte le rappresentazioni, in Italia e all’estero, che si susseguiranno sino ai primi anni Ottanta. Nel 1983 lo stesso autore, in una conferenza-spettacolo tenuta a Montalcino
, dichiarava l’assoluta attualità della sua commedia:
«
questi partiti politici lontani dalla nostra vita,fantasmi anche loro, o chissà che non siano riusciti a convertire tutti noi in fantasmi…»
[2]
La capacità di traduzione della commedia eduardiana (non solo di questa, per la verità) si rivela in tutta la sua potenza a partire dall’analisi lucida e profetica che l’autore compie sulla società dell’immediato dopoguerra. La Napoli e l’Italia del 1946 vengono rappresentate come mondo del caos e dell’ignoranza in cui è l’apparenza la sola realtà che conta. La radicale trasformazione della società comporta, sul lungo periodo, conseguenze che a non tutti i contemporanei potevano esser chiare e che l’occhio attento di Eduardo individua senza difficoltà alcuna.
Compare sulla scena, in senso figurato e non, un nuovo personaggio, ultimo prodotto sociale: l’aspirante piccolo borghese, o meglio, “il borghese piccolo, piccolo” come, in senso dispregiativo, talvolta lo definiva Eduardo.
Non è propriamente questo il caso dell’anima in pena Pasquale Lo Iacono, i cui contorni vengono tracciati dall’autore in maniera sfumata lasciando allo spettatore l’arduo compito di decidere se si tratti di un innocente credulone o di un furbo profittatore o, ancora, di un disperato pronto a tutto.
Ma, al di là della simpatia o antipatia che può suscitare quest’anima che si dibatte, la caratteristica principale che contraddistingue l’aspirante piccolo borghese è l’ossessione del denaro ed il relativo riconoscimento sociale; in questo senso la figura di Pasquale è assolutamente ben delineata. Si intestardisce nella convinzione che non vi sia alcuna relazione durevole che non abbia un corrispettivo in denaro. E nessuna delle anime che popolano il palcoscenico tenta di dargli torto. Raffaele, il portiere (anima nera) lo accoglie in casa cercando di definire dal principio il suo compenso; Alfredo (anima libera), amante della moglie, nell’esposizione dei propri piani, non fa altro che parlare di soldi, sostenendo, al rovescio della medaglia, la medesima teoria di Pasquale.
Ma il denaro, e qui spunta la finalità didascalica di Eduardo, è capace di sovvertire la realtà catapultandola nella finzione! È sempre il denaro, con la sua immaterialità, che rende gli uomini e le donne fantasmi. La grande intuizione consiste proprio nella rappresentazione di questo piccolo purgatorio quotidiano in cui si affollano figure evanescenti in attesa di condanna definitiva o liberazione.
Il tema del “denaro”, caro all’autore, è analizzato anche in Napoli Milionaria (1945) dove, però, non è il dopoguerra il nodo cruciale ma la guerra stessa. In una condizione di vita fuori dall’ordinario, il denaro riesce a smaterializzare i corpi ma vi è una giustificazione, in fondo: essa sta nella straordinarietà stessa della situazione. La fine della guerra ristabilisce l’ordine.
La riflessione di Eduardo a solo un anno di distanza dalla composizione di Napoli Milionaria, si radicalizza in senso negativo. La società è profondamente ed irreversibilmente mutata. La guerra è finita ma il suo spettro è riuscito a sovvertire l’ordine.
Immagine sbiadita dei vivi che furono (prima della guerra), sono questi fantasmi.
Nessuna netta divisione tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi; essi convivono, ma non si confondono. Il professor Santanna (anima utile ma non compare mai) a cui è affidato il ruolo di ristabilimento del reale, vede i fantasmi, ci parla, ne condivide le abitudini (il cerimoniale del caffè) ma non invade la loro scena. La comunicazione verbale e gestuale costituisce la modalità di convivenza. Quella stessa comunicazione che permette a Pasquale di confessarsi ad Alfredo ma non a sua moglie; quella stessa comunicazione che Eduardo individua come chiave di accesso (Pasquale alla moglie: «Marì , avimmo perso a chiave»), unica speranza di salvezza.
[1] Eduardo in un’intervista al «Corriere della Sera», 17 gennaio 1983.
[2] Citazione tratta da E. De Filippo,
Cantata dei giorni dispari, Einaudi 1995, pag. 128.