giovedì 11 agosto 2011

La rosa purpurea del Cairo

La rosa purpurea del Cairo, di W. Allen, 84 min., colore - b/n, Stati Uniti 1985


A mio parere, e sono pronta ad essere contraddetta, l’essenziale di questo film sta nella domanda che si presenta ostinatamente: “Che cos'è la non vita?”. Ma di rimando bisognerebbe chiedersi: “Che cos’è la vita?”.
Vita e non vita giocano continuamente a rincorrersi tra i personaggi, che cercano e non trovano la fantomatica e leggendaria, per ciascuno diversa, Rosa purpurea del Cairo.
Possiamo cominciare da Cecilia.  La non vita potrebbe essere semplicemente la sua? D’altronde conduce un’esistenza insoddisfacente, con un marito che la picchia, usa i suoi soldi per giocare e dà noia alle ragazze. Cecilia riesce a stento a lavorare tra un piatto rotto ed una portata sbagliata. Non per niente lei è quella che ha sempre la testa fra le nuvole, che sogna una storia d’amore alla Ginger e Fred e si rifugia ogni giorno al cinema, anche da sola, anche per rivedere lo stesso film. Il cinema è la sua caverna, il suo rifugio dalla vita, dalla grande depressione che ha travolto l’America negli anni ’30 e che la libera paradossalmente dalla sua prigionia. Cecilia non fa altro che aspettare e sperare nella sua Rosa purpurea. Ma qui si può obiettare che la stessa Cecilia nel cinema stesso è piena di vita, più di qualsiasi altro personaggio del film. Qui trova quotidianamente un piccolo barlume di speranza. Qui incontra quello che spera essere l’amore vero.


venerdì 1 luglio 2011

Koyaanisqatsi

Koyaanisqatsi, di G. Reggio, 83 min., colore, USA 1983
  
Un capolavoro. Immagini suonate sul tamburo del mondo. Un lungometraggio impressionato dalle profezie del popolo Hopi, tramato dalla musica di Philip Glass, girato in 6 anni. «Koyaanisqatsi non si sofferma su un tema in particolare, così come esso non racchiude un significato o valore specifico. Koyaanisqatsi rappresenta, in effetti, un oggetto animato, un oggetto nel tempo che avanza, il cui significato dipende dallo spettatore. L’arte non possiede un significato intrinseco: in questo sta la sua potenza, il suo mistero e, di conseguenza, il suo fascino. Così, a prescindere dalla mia personale intenzione all’atto della creazione di questo film, sono consapevole del fatto che qualsiasi significato o valore assunto da Koyaanisqatsi si deve unicamente allo spettatore. Il ruolo del film è quello di provocare, di sollevare interrogativi che solo il pubblico è in grado di risolvere. Questo è il maggiore valore di qualsiasi opera artistica: non un significato predeterminato, bensì un significato dedotto dall’esperienza dell’incontro. L’incontro è al centro del mio interesse, non il significato. Se il fine è il significato, allora la propaganda e la pubblicità rappresentano la sua giusta forma. Così, nel senso dell’arte, il significato di Koyaanisqatsi coincide con qualsiasi cosa si voglia leggere in esso: in questo sta la sua grandezza».
Deserto di senso? E tutti noi, certo, vorremmo credere agli artisti quando fingono l’assenza precostituita di senso. Del resto non è colpa loro: cos’altro potrebbero dirci? Sarebbe meglio smettere di fargli domande stupide. Godfrey Reggio si mette all’opera dopo 14 anni di reclusione mistica. Sarà illuminazione, ma di certo anche umana troppo umana preghiera.


mercoledì 29 giugno 2011

La voce della luna

La voce della Luna di F. Fellini, 122 min., colore, Italia/Francia 1990.

Ultimo dei film di Fellini, La voce della Luna ha un’indubbia valenza testamentaria e costituisce quasi un borbottio amaro, disincantato ancorché onirico, contro il mondo attuale: «Il più sconsolato film di Fellini, […] un desolato commento sulla volgarità e l’abominio del tempo presente»[1].
Il film, liberamente tratto dal romanzo di Cavazzoni, Il poema dei lunatici, di cui costituisce una sorta di prosieguo, se non di epilogo, narra le vicende di Ivo Salvini, del prefetto Gonnella e degli altri matti di un’immaginaria città del centro Italia.
Matti, lunatici, pastori erranti in cerca della verità, animati da una profonda ansia esistenziale, alla ricerca della Luna. O dell’amore. O del senso ultimo della vita: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo? Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa si vuole da noi? Cosa ci hanno fatto nascere a fare?», grida Onelio, in faccia alla Luna. I matti: i soli filosofi di una società folle. In effetti, sembra proprio che sia il lumino del folle di Nietzsche il vero filo conduttore del film.
Perché è un film che sembra non avere una trama. Grottesco, surreale, frammentario. Per molti versi incommentabile: la critica lo ha accolto con freddezza, nel ’90, se non con disprezzo. Lascia storditi, ancora oggi. Senza parole. Incomprensibile, quasi. Per fortuna.
Per fortuna, per una volta, non si ha nulla da dire. Non si sa che dire. E già questo è il segno del genio di Fellini: finalmente, un film che mette a tacere il banalissimo scambio di opinioni. Un film indecifrabile, assolutamente inutile, inutilizzabile anche per il colto cianciare pieno di buoni propositi del soggetto nomade contemporaneo – o dell’ultimo uomo – che non ha orecchi abbastanza fini, direbbe il buon Nietzsche. Ecco: un film, finalmente, da ascoltare. Un film autistico. Un film muto. Geisterphilosophie.


martedì 7 giugno 2011

Una pura formalità


Una pura formalità, di G. Tornatore, colore, 108 min., Italia/Francia 1994.


Da che prospettiva si pensano la non-morte e la non-vita? I non-morti-non-vivi riescono a guardarsi nello specchio (s)poetizzante delle immagini in sequenza e a sperimentare la possibilità di dire di sé come se fossero altro da ciò che pensano di sé, come se fossero acqua senza scopo, vibrazione senza energia, organo senza organismo?
Non estinguendo l’ipoteca del paradosso, ma rendendo al contrario ben visibile l’ubriachezza della ragione, che tenta sempre di raccogliere il suo resto, i suoi avanzi, le briciole di imponderabile che rischia ogni volta di disseminare lungo il terreno ventoso della follia, è possibile dire dell’inimmaginabile rendendolo teorema che sa di favola?
Proviamo a reimmergerci attraverso la scrittura nell’atmosfera sospesa, pesante d’acqua e desiderio, di Una pura formalità, che, dipingendo e riempiendo la dimensione puntuale tra vita e morte, sposta il baricentro dello spettacolo un po’ più in là della linea di equilibrio della vita, avvicina al margine dell’involucro corporeo che organizza le sensazioni e le funzioni vitali, porge l’orecchio in direzione del silenzio e giocando di strabismo ed amnesia, sembra voler alleggerire il peso delle assenze che il/la non-morto/a-non-vivo/a coltiva nelle stanze invisibili della sua solitudine, destinate a rimanere spoglie, risonanti di echi confusi, troppo grandi per essere riempite.
Nell’ambito del ciclo di proiezioni del laboratorio cinematografico della Geisterphilosophie, Una pura formalità è uno sguardo, forse il più decentrato finora, sulla non-vita che si racconta e si ricostruisce da una prospettiva insolita, situata tra la non-vita e la non-morte, in un luogo che non è uno spazio, bensì un punto. L’avamposto galleggiante dei Carabinieri in cui si imbatte confuso ed impaurito Onoff, non è, infatti, imprigionato nella luce tragica caravaggesca che illuminando allarga lo sguardo, lo spazio vitale, il tempo dei corpi intrecciati che abitano il Limbo cristiano-dantesco o l’hamistagan zoroastriano. L’avamposto di frontiera pietroso e gocciolante sembra invece illuminato ad intermittenza solo dal ricordo recuperato, dalla parola liberata dal silenzio, dal fluire sanguigno del vino in vene sottili di cristallo, dalla trappola nascosta del nutrimento solo corporeo della vita. Luce non luce, che al bianco onnicomprensivo della verità, sostituisce la parzialità poetica di certi colori, le ombre delle tonalità visibili e sonanti della vita immaginata e della non vita recitata, le sfumature cupe e sensuali dell’interiorità, che sanno di carne, paura e corpo desiderato (come) proprio.

venerdì 13 maggio 2011

Pa-ra-da


Pa-ra-da, di M. Pontecorvo, colore, 100 min., Italia 2008.


I confini, i limiti sono luoghi dell’esistenza, tracciati dell’immaginazione, che protegge e rassicura dalla mancanza di figurazione, dall’assoluto dello sconfinato che lo sguardo non può abbracciare. “Al limite”, si dice quando si vuole disegnare la lunghezza del raggio che definisce lo spazio di ciò che si avverte come possibile per sé, descrivibile dalle parole che si conoscono, che si è capaci di pronunciare e di comporre, per raccontare mondi che si sognano o si progettano. Prima del limite puntuale o di quello che tende all’infinito tutto è possibile poiché dicibile, dopo lo sconfinamento il senso si perde, le direzioni si moltiplicano e confondono, l’inversione, la distruzione, l’annullamento, la scomparsa... tutto il possibile non è dicibile e ciò che è immaginabile è sempre dentro un corpo di parole. Il limite oltre il limite non si pensa mai, se non appiattendo il primo sul secondo, retrocedendo dall’orizzonte che nasconde al confine che si sente. Il confine, nel senso di quell’in between space di cui scrive Homi Bhabha, diventa spesso un luogo di elaborazione di violenza perché, nel tentativo di espandere il dicibile, il visibile aggredisce l’invisibile che trama l’esistenza.
La non-vita, gioca con la vita. L’una inganna l’altra, la contamina e la svuota per metterla sempre, ancora una volta al cospetto della domanda di senso, per interrogarla sull’intensità o l’assenza del sentire, per chiederle di prender forma, di definirsi. E’ come il gioco di un mimo davanti ad un labirinto di specchi.

domenica 8 maggio 2011

Departures





Departures (Okuribito), di Y. Takita, colore, 130 min., Giappone 2008.



«Èvero, i cadaveri sono apprezzati solo nei film horror soprattutto nel ruolo di morti viventi, mentre qui appaiono come defunti reali, al centro del dolore delle persone care, e da noi sarà tutto un toccarsi». Natalia Aspesi[1] riassume in queste parole il senso di disagio che lo spettatore (italiano, in particolare) prova immediatamente nel vedere questo film. E involontariamente delinea il senso dell’interpellazione geisterphilosophich di Departures: l’altra faccia dell’Unheimliches geisterphilosophich legato alla non-morte è questo perturbante superstizioso legato, direttamente, alla morte. È in questo campo rarefatto, in questo scarto sospeso, che si dà, in tutta la sua drammaticità, l’appello geisterphilosophich e, per così dire, l’inquisizione geisterphilosophich sulla non-vita, essa stessa mediatore evanescente sospeso tra morte e non-morte.

Prima considerazione di carattere geisterphilosophich: la non-vita fa da mediatore evanescente tra vita e morte. Esattamente come la non-morte essa non è morte ma non è ancora neanche vita. Esattamente come la non-vita, la non-morte non è ancora morte, ma già non è vita. Si vede qui molto bene, ancora una volta, come la dialettica pluralizzata della Geisterphilosophie metta in gioco una specularizzazione rifrattiva (o diffrattiva), ovvero anche frattiva, frattale, virtualmente ad libitum. La considerazione fondamentale, qui, è ovviamente che la non-vita è l’altra faccia della non-morte; la faccia non vista, se vogliamo, la sfoglia speculare che sta al di là della pellicola fantasmagorica e fenomenale della non-morte (questa sì ben visibile, ancorché – e anzi proprio perché – fantasmaticamente proiettata) e ciò a cui la non-morte, proprio in quanto tale, rinvia necessariamente perché con essa fa tutt’uno pur non essendone l’identico. La non-vita è quasi la non-morte. E viceversa la non-morte è quasi la non-vita cui immediatamente (e implicitamente) sempre rinvia pur non coincidendovi.
(En passant, è bene sottolineare un’ovvietà: quel quasi non è assolutamente peregrino o occasionale – esso è anzi il perno su cui gioca tutta la Geisterphilosophie, lo scarto dissonante, la rifrazione che fa da spia della diffrazione ontologica del reale, la fata morgana del cosmo.)


sabato 26 marzo 2011

Questi Fantasmi!


 Questi Fantasmi!, di E. De Filippo, commedia in tre atti (edizione televisiva), b/n, Italia 1962.

«C’era un vecchio con la barba che veniva a casa quando ci trovavamo tra amici perché raccontava di essere uno specialista di sedute spiritiche. Per convincermi, mi diceva che spesso, tornando a casa sua, trovava un tipo che usciva e lo salutava. Diceva di essere un fantasma. Io gli chiesi: Lei è sposato? E sua moglie non dice nulla? Non se ne accorge – mi rispose – non lo vede. Così nacquero Questi Fantasmi!»[1] 
Eduardo compone e mette in scena la commedia nel 1946La prima, all’Eliseo di Roma, è un trionfo, e trionfali  saranno tutte le rappresentazioni, in Italia e all’estero, che si susseguiranno sino ai primi anni Ottanta. Nel 1983 lo stesso autore, in una conferenza-spettacolo tenuta a Montalcinodichiarava l’assoluta attualità della sua commedia: «questi partiti politici lontani dalla nostra vita,fantasmi anche loro, o chissà che non siano riusciti a convertire tutti noi in fantasmi…»[2]
La capacità di traduzione della commedia eduardiana (non solo di questa, per la verità) si rivela in tutta la sua potenza a partire dall’analisi lucida e profetica che l’autore compie sulla società dell’immediato dopoguerra. La Napoli e l’Italia del 1946 vengono rappresentate come mondo del caos e dell’ignoranza in cui è l’apparenza la sola realtà che conta. La radicale trasformazione della società comporta, sul lungo periodo, conseguenze che a non tutti i contemporanei potevano esser chiare e che l’occhio attento di Eduardo individua senza difficoltà alcuna.
Compare sulla scena, in senso figurato e non, un nuovo personaggio, ultimo prodotto sociale: l’aspirante piccolo borghese, o meglio, “il borghese piccolo, piccolo” come, in senso dispregiativo, talvolta lo definiva Eduardo.
Non è propriamente questo il caso dell’anima in pena Pasquale Lo Iacono, i cui contorni vengono tracciati dall’autore in maniera sfumata lasciando allo spettatore l’arduo compito di decidere se si tratti di un innocente credulone o di un furbo profittatore o, ancora, di un disperato pronto a tutto.
Ma, al di là della simpatia o antipatia che può suscitare quest’anima che si dibatte, la caratteristica principale che contraddistingue l’aspirante piccolo borghese è l’ossessione del denaro ed il relativo riconoscimento sociale; in questo senso la figura di Pasquale è assolutamente ben delineata. Si intestardisce nella convinzione che non vi sia alcuna relazione durevole che non abbia un corrispettivo in denaro. E nessuna delle anime che popolano il palcoscenico tenta di dargli torto. Raffaele, il portiere (anima nera) lo accoglie in casa cercando di definire dal principio il suo compenso; Alfredo (anima libera), amante della moglie, nell’esposizione dei propri piani, non fa altro che parlare di soldi, sostenendo, al rovescio della medaglia, la medesima teoria di Pasquale.
Ma il denaro, e qui spunta la finalità didascalica di Eduardo, è capace di sovvertire la realtà catapultandola nella finzione! È sempre il denaro, con la sua immaterialità, che rende gli uomini e le donne fantasmi. La grande intuizione consiste proprio nella rappresentazione di questo piccolo purgatorio quotidiano in cui si affollano figure evanescenti in attesa di condanna definitiva o liberazione.
Il tema del “denaro”, caro all’autore, è analizzato anche in Napoli Milionaria (1945) dove, però, non è il dopoguerra il nodo cruciale ma la guerra stessa. In una condizione di vita fuori dall’ordinario, il denaro riesce a smaterializzare i corpi  ma vi è una giustificazione, in fondo: essa sta nella straordinarietà stessa della situazione. La fine della guerra ristabilisce l’ordine.
La riflessione di Eduardo a solo un anno di distanza dalla composizione di Napoli Milionaria, si radicalizza in senso negativo. La società è profondamente ed irreversibilmente mutata. La guerra è finita ma il suo spettro è riuscito a sovvertire l’ordine.
Immagine sbiadita dei vivi che furono (prima della guerra), sono questi fantasmi.
Nessuna netta divisione tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi; essi convivono, ma non si confondono. Il professor Santanna (anima utile ma non compare mai) a cui è affidato il ruolo di ristabilimento del reale, vede i fantasmi, ci parla, ne condivide le abitudini (il cerimoniale del caffè) ma non invade la loro scena. La comunicazione verbale e gestuale costituisce la modalità di convivenza. Quella stessa comunicazione che permette a Pasquale di confessarsi ad Alfredo ma non a sua moglie; quella stessa comunicazione che Eduardo individua come chiave di accesso (Pasquale alla moglie: «Marì , avimmo perso a chiave»), unica speranza di salvezza.

[1] Eduardo in un’intervista al «Corriere della Sera», 17 gennaio 1983.
[2] Citazione tratta da E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, Einaudi 1995, pag. 128.

Maria Rosaria Falcone

martedì 22 marzo 2011

The Others


The Others, di A. Amenàbar, 101 min., colore, USA/Spagna/Francia 2008


The Others sono immagini in sequenza sull’alterità, sull’alterazione si sé, sulla compresenza in uno stesso mondo di più dimensioni, di punti di vista altri, di altre presenze, di altri corpi incorporei, di altre percezioni, di altri sensi. Un film di fantasmi, in cui il confine tra vita e morte non si perde, non scompare, ma continua a tracciarsi mentre si cancella, perché l’immagine gioca sulla percezione di chi guarda e sente; perché tradisce la fiducia dello spettatore, che prima crede al regista, a ciò che gli mostra e poi deve ricredersi, distaccarsi dallo sguardo dell’altro, meccanico e di carne insieme, e riprendere a fidarsi di sé, di ciò che sente, perché quello che c’è fuori, sullo schermo, è ormai marchiato dal segno del tradimento, dalla posizione di un confine che prima non c’era.
Il mondo di “compresenze” è sì quello di fuori, abitato da figure figuranti per lo più servili (il prete che celebra messa per Dio, per la comunità di fedeli e per la dittatura della sua anima cristiana, che gli intima purezza e obbedienza in cambio di salvezza o dannazione eterna; i domestici, che servono il/la padrone/a per sempre, fedeli, sottomessi per sempre anche post mortem; il marito, che decide di andare in guerra per servire la Patria e non sottomettersi all’amore dell’amante, alla sua pretesa di presenza e all’incombenza dei doveri che la famiglia richiede), che circolano tra case, giardini, chiese, strade, cimiteri, boschi nebbiosi, ma è anche quello di dentro, il mondo racchiuso in un corpo di corpi.

mercoledì 23 febbraio 2011

Suspense


Suspense (titolo originale: The Innocents), di J. Clayton, 100 min., b/n, GB 1961. 

Suspense di J. Clayton ci inserisce a pieno regime nell’analisi del fantasma. Le considerazioni riportate sono date in ordine sparso e provenienti dai vari partecipanti al laboratorio cinematografico. I titoli, nel libro “Giro di vite” in riferimento allo svolgimento iperbolico della trama, all’accumularsi di piani di lettura, al vertiginoso approdo alla scena madre finale che vede coinvolti la giovane signorina Giddens ed il bambino del quale deve prendersi cura.

sabato 12 febbraio 2011

Fantasmi a Roma


Fantasmi a Roma, di A. Pietrangeli, colore, 100 min., Italia 1961.

Fantasmi italiani.

Gassman, Mastroianni e Buazzelli in una scena del film
Santi (non proprio santi), artisti e donnaioli - ecco l'Italia. Non è difficile riconoscere in questa classica (?) commedia di Pietrangeli un divertito ed elegante affresco di quell'intreccio costitutivamente italiano tra clero e nobiltà con l'aggiunta dell'artista/borghese/intellettuale. Ma si tratta, in verità, della buona vecchia Italia, più che dell'Italia degli intrecci e delle macchinazioni politiche, di quell'Italia che arranca, con un pizzico di orgoglio e tanta autoironia, per sopravvivere al travolgente boom economico degli anni '60.
Paese che vai, fantasmi che trovi, verrebbe da pensare: qui siamo di fronte ad un tipo di fantasmi del tutto diverso da quelli di Shining, per quanto, in qualche modo, entrambi i film riprendono quel che accade in una "casa infestata". Ma c'è un oceano di distanza: qui non c'è proprio nulla che spaventi, non c'è nulla che inquieti, se non forse il timore per il futuro, per la perdita di quell'Italia calpestata dalle ruspe del progresso, messa a tacere dai fragori degli "anni ruggenti" e dall'americanizzazione. Certo, c'è una differenza nei toni ovvia: il film di Kubrick è un horror d'autore - Fantasmi a Roma è una commedia d'autore. Tuttavia la bonarietà di questi fantasmi nostrani non si esaurisce in una semplice scelta registica o in un diverso target.

venerdì 4 febbraio 2011

The Shining - Come interpellare il fantasma?


Una breve nota geisterphilosophich su The Shining. Con questa proiezione siamo ormai calati decisamente, e forse improvvisamente, nello spettrale regno del fantasma. Qui tutto si rarefà, si indistingue e si confonde. Forse si rovescia. Probabilmente, orientarsi risulta stranamente più difficile che non con quei non-morti cadaverici finora incontrati: Frankenstein, Dracula, gli zombie. E certamente sembrava quanto mai scontato evocare i fantasmi di questi cadaverici undead onde ascoltarne la testimonianza. Qualcosa cui chi segue questo laboratorio si è ormai abituato. Qui, con Shining, il meccanismo d'evocazione sembra d'improvviso incepparsi. Il fantasma sfugge dalle mani, non ha materia cui aggrapparsi, apparentemente - inesiste, ecco tutto. Non ha ombre da proiettare che si possano quindi far valere nell'interpellazione geisterphilosophich. In Dracula si può scorgere, nella proiezione cinematografica, una proiezione di fantasma, anzi una vera e propria fantasmagoria: il rimosso del sesso, dell'amore, della società, della vita stessa, del potere. Altrettanti fantasmi che l'ombra (animata) del vampiro più famoso della storia proietta in visioni eteriche e sublimi.
Con Shining, lo schema d'improvviso salta. Del resto Kubrick è una presenza ingombrante: nel cinema d'autore risulta molto più difficile far emergere fantasmi, poiché lo fa già l'autore. Allora sembra - sembra - che il meccanismo s'inceppi. Ma ecco, appunto, s'inceppa solo ciò che è un meccanismo. Voglio dire, senza mezzi termini: la Geisterphilosophie non si profonde in un semplice gioco di smascheramento o di ribaltamento, e in generale non adopera meccanismi o schemi interpretativi. La Geisterphilosophie, piuttosto, offre rituali d'evocazione fantasmatica. Che i fantasmi proposti nel film di Kubrick siano i fantasmi di Kubrick non toglie di fatto nulla all'evocazione: si interpellino i fantasmi di Kubrick. Non si tratta di interrogare e rivelar metafore: "il fantasma è: metafora della vita familiare", "il fantasma è: metafora delle paure inconscie" e così via. Nell'interpellazione geisterphilosophich non vi sono imbarazzi: entriamo piuttosto in uno spazio fantasmatico esso stesso, d'auscultazione, per così dire.
Sicché, in primo luogo, vorrei indicare la chiave geisterphilosophich per entrare in questo spazio rituale: il fantasma stesso sfugge ad ogni logica di interrogazione teoretica - e dunque sfugge ad ogni metaforizzazione - per il semplice fatto che è impalpabile. Ma, a rigor di logica, non cambia nulla rispetto ad altri non-morti. Abbiamo qui come lì a che fare col fantasma di un fantasma. Anzi, nel caso dell'Overlook Hotel di Kubrick, con fantasmi di fantasmi. La pluralizzazione introduce ad una perfetta Geisterphilosophie.
Ancora una volta va ribadito: il fantasma in sé non ha nulla da dire. Il fantasma in sé inesiste, e in quanto tale la sua visione non è che proiezione. Ma quella proiezione è per l'appunto un fantasma: fantasma di fantasma. Il fantasma in sé inesiste come inesiste ogni presenza. Il report di Gianfranco Irlanda e Marina Nardone sottolinea con giusta forza la preponderanza dell'elemento speculare nel film di Kubrick: bisognerà notare ancora la totale specularità tra i morti e i vivi, entrambi perfettamente e semplicemente presenti sulla scena. Ecco: il mistero della presenza. Che si rovescia in un'eterna assenza. Sì, sembrerebbe che i fantasmi di Kubrick siano già interpretati come proiezioni schizoidi di una mente degenerata. Oppure freudiani fantasmi di una situazione edipica irrisolta. Pure, l'interpellazione geisterphilosophich permane: che testimoniano questi fantasmi? La vera testimonianza è che, in fondo, tali fantasmi non sono che le proiezioni di fantasmi, giacché se si nega uno statuto ontologico (come pure bisogna fare) a quei fantasmi, lo si dovrà necessariamente negare anche tutti i viventi presenti nel film: non sono forse essi stessi, già da sempre, inesistenti? Chi proietta queste immagini oniriche: Danny, Jack Torrence, il negro o Wendy? Oppure non sono piuttosto, tutti costoro, i sogni immaginifici di Grady, delle gemelline e di tutti gli altri? O sono tutti, invece, i fantasmi di Stanley Kubrick proiettati nel libro di Stephen King? E siamo noi ad assistervi come spettatori? O non siamo piuttosto noi i fantasmi di uno spettacolo onirico, al di qua di uno specchio che ci riflette in un mondo assolutamente fantasmatico?
Questa stessa chiave, con ogni probabilità, andrà tenuta presente ogni qual volta si tratterà di interpellare fantasmi. Ciò che mi premeva sottolineare in questa sede.

Diego Rossi

Shining


Shining, di S. Kubrick, colore, 146 min., USA 1980

"È lei il custode dell'albergo. È sempre stato lei..."
Delbert Grady, ex custode dell'Overlook Hotel, si esprime così nel momento in cui si rivela la sua natura fantasmatica nei confronti di Jack Torrance, interpretato da un superlativo Jack Nicholson. La luce pervade la scena, la luce di una toilette per signori dal colore rosso acceso.
E' la presenza della luce che permea le scene più inquietanti di Shining di Stanley Kubrick, film uscito nel 1980, tre anni dopo il romanzo di Stephen King cui Kubrick si è ispirato.
Shining, come già 2001: Odissea nello spazio del 1968, si presenta come la summa del genere a cui appartiene, rileggendolo però attraverso la personalissima visione del regista americano.

L’horror familiare allo specchio

Il genere è quello tradizionalmente inteso dell'orrore, ma il regista, pur inserendo quasi tutti gli stereotipi del genere riesce a reinterpretarli in maniera molto personale.
Il film narra la vicenda di un ex insegnante e scrittore in crisi che si trasferisce con la moglie, Wendy (una strepitosa Shelley Duvall) e il figlio Danny in un albergo del Colorado dove lavorerà come custode per il periodo di chiusura invernale. Un lavoro di vitale importanza per Jack che rappresenta la soluzione all’impellente necessità di guadagno e la possibilità di coniugare la sua attività di scrittore, a lungo accantonata dai fallimenti di una vita familiare e sociale.
La permanenza in un luogo chiuso, isolato, per quanto piacevole e accogliente, come deve essere un albergo, comincia ad accentuare le crepe nei rapporti umani tra i protagonisti, all'inizio apparentemente normali; vengono a galla a poco a poco tracce di una serie di avvenimenti del passato, inizia a manifestarsi l'inquietudine di un luogo che sembra avere uno spirito proprio.

martedì 1 febbraio 2011

Lasciami entrare


 Lasciami entrare (Låt den rätte komma), di T. Alfredson, colore, 114 min., Svezia 2008.


Diretto dallo svedese Tomas Alfredson, il film Lasciami entrare è stato sceneggiato da John Ajvide Lindqvist, l'autore, svedese anch'egli, dell'omonimo romanzo edito nel 2004 a cui il film è ispirato.
Il percorso cinematografico sul tema della non morte ci ha visti interessati ad indagare il legame, spesso fortissimo, che esiste tra i film che trattano di vampiri, zombie e fantasmi e le zone oscure della società in cui viviamo - ciò che più volte abbiamo chiamato “rimosso” - rendendole visibili ed analizzabili. Lasciami entrare si pone di per sé in quest'ottica e si presta tranquillamente ad un'analisi di questo tipo. Il film rispetta infatti tutti i cliché del genere “vampiri” riassorbendoli però in una visione assolutamente originale che quasi impone un' interpretazione simbolica psicologica o sociale. Non è una variazione sul tema questa, ma una profondissima riflessione sui sentimenti, i rapporti umani e la società.

domenica 30 gennaio 2011

Twilight


Twilight di C. Hardwicke, colore, 117 min., USA 2008

Forks, Penisola di Olympia, contea di Clallam, stato di Washington. Sorta ai confini della riserva Mora e dell’area di La Push – la bouche storpiata, la bocca del fiume, quello lungo il quale si estende la zona – patria della tribù degli indiani-licantropi Quileute, dei surfisti e dei cacciatori di balene. La giovane, piovosa, nuvolosa, grigia Forks, con la sua foresta nebbiosa, i suoi alberi di cedro. Battezzata dall’intrico di fiumi che vena le sue terre e che attira pescatori di salmone e di trote arcobaleno da tutta la contea. Forks che sembra ferma nel tempo, distante, nascosta, grigio-verde è stata consacrata da Stephenie Meyer, la scrittrice statunitense che nel 2005 inizia a pubblicare i libri della Saga Twilight, come culla o forse teca del/la nuovo/a “tipo/a vampiro/a”, del/la vampiro/a moderno/a, à la page, trendy. Bello e maledetto, ribelle e solitario, un James Dean ripulito, acculturato e con lunga vita lui; classicamente americana, tendenzialmente biondo platino, un po’ pin-up, un po’ veggente per caso, lei. Parliamo dei/lle non-morti/e. Accanto a loro i/le non-vivi/e: la comunità di Forks con tutti i suoi usi e costumi; la straniera; gli indiani della riserva. Catherine Hardwicke, in Twilight, mette in immagini le vicende di alcuni clan di ultima generazione vampirica, avviando così la Saga filmica Twilight – seguiranno New Moon di Chris Weitz, 2009; Eclipse di David Slade 2010; Breaking Dawn di Bill Condon, 2011. Il modo in cui Meyer-Hardwiche raccontano di questa depotenziata e umanizzata generazione vampirica e del contesto in cui essa spende la sua non-morte eterna, è il motivo che rende interessante riflettere sul “caso cinematografico Twilight”, che sopravvive a cambi di regia e a differite spazio-temporali; che, richiede fedeltà – o meglio affiliazione – e pazienza; che invoca allo stesso tempo ribellione al sistema e fede nel sogno americano.

lunedì 10 gennaio 2011

Intervista col vampiro


Intervista col vampiro (Interview with the Vampire), di N. Jordan, 118 min., USA 1994.


Intervista col vampiro. Ovvero: cronache di vampiri, come recita il sottotitolo. Un film che ha segnato indubbiamente una svolta nel cinema degli ultimi vent'anni, insieme ai romanzi di Anne Rice, che ne ha scritto la sceneggiatura e dei quali il film stesso costituisce la trasposizione cinematografica (in particolare dell'omonimo primo romanzo delle Cronache dei vampiri). Un passaggio che segna un cambiamento nell'immaginario e nella percezione collettiva degli anni '90 , di cui lo stesso Dracula di Francis Ford Coppola, di due anni prima, costituisce un momento saliente, in perfetta sintonia con quella tendenza che nell'Intervista viene esplicitata in maniera da formare quasi un canone che informerà, insieme ad un altro cult coevo, Il corvo, la cultura di un'intera generazione e che, di fatto, costituisce il terreno dal quale emergerà anche la più recente sottocultura giovanile (per intenderci, gli "emo") nonché l'attuale moda legata al vampirico (già: vampirico piuttosto che vampiro, dacché non si può parlare in questo caso di vampiri tout court).

mercoledì 5 gennaio 2011

Dracula di Bram Stoker


Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula), di F. Ford Coppola, 128 min., USA 1992.


«Se è la cultura che cerca, visiti un museo!». Così si esprime Mina Harker durante il primo, fatidico incontro con il principe Vlad nel Dracula di Bram Stoker di Coppola. È un ammiccamento ironico da parte del regista (e dello sceneggiatore) riguardo al cinema, ma anche un avvertimento reale allo spettatore con troppe aspettative: qui si fa spettacolo, la vera cultura va ricercata altrove.
Spettacolo come necessità di sopravvivenza, per una casa di produzione, la Zoetrope, sull'orlo della bancarotta, spettacolo come necessità espressiva, in un gioco di ombre tra ombre che si rincorrono e sono sempre fuori tempo rispetto a chi le genera, spettacolo come vita di finzione che si contrappone alla vita reale, pur inseguendola sempre, così come la vita del non-morto si contrappone all'esistenza dei viventi ma la ricerca, la brama, è necessaria alla sua stessa esistenza.
Un gioco di contrapposizioni e rimandi che continua nel rapporto tra testo narrativo e testo visivo, con le libertà interpretative che portano questa versione del romanzo di Bram Stoker ad essere allo stesso tempo la più vicina in senso letterale e quella che forse si allontana di più nella sostanza dal testo scritto.
La presenza di citazioni e rimandi fa sì che questa di Coppola del 1992 sia una summa delle versioni precedenti, una citazione e rimando continuo a tanto altro cinema dell'orrore, in un desiderio di attirare un pubblico cinematograficamente adulto, pur in un film che molto si orienta a una platea giovane, nella necessità dichiarata di essere film di successo.
Barocco, eccessivo, rifiuta gli effetti speciali digitali per rifarsi con quelli ottici al cinema degli albori, con modellini, sovrimpressioni in ripresa, slow motion, stop motion, riprese al contrario. E il legame non è casuale, visto che il romanzo è praticamente coevo alla nascita del cinema, in un legame che rimarrà stabile nel tempo (Dracula è uno dei personaggi letterari con il maggior numero di trasposizioni cinematografiche).
Citazioni, rimandi, ma anche libertà. È nelle differenze con il romanzo che bisogna cercare una chiave di lettura.
Il vampiro, da essere ferino, animale selvaggio che brama il sangue, diventa una figura drammatica di vedovo dannato, un essere che dentro di sé brama la pace, pace che solo la protagonista gli potrà dare, nella non-morte come nella morte vera e propria. Mina, d'altro canto, come l'altra protagonista Lucy, è una donna consapevole. Una volta acquisita coscienza dell'antico legame con il principe delle tenebre, Mina si trova divisa tra l'amore per Johnatan e la passione per l'amante notturno, ma non subisce passivamente.
La figura del vampiro diventa così una metafora della liberazione della donna nella società vittoriana, la sessualità che viene repressa a tutti i costi per far sì che la donna rimanga sottomessa, passiva. Il vampiro si manifesta come la possibilità di una vita libera, per questo gli uomini lo devono sopprimere, per mantenere lo status quo. La libertà che si manifesta sotto forma di "bacio", del sangue che viene scambiato e in questo richiama a tante altre forme di vita libera che, passati gli anni della liberazione sessuale, proprio in quel periodo venivano etichettate come pericolose: l'omosessualità, la tossicodipendenza, l'eccessiva promiscuità sessuale... Sono, è bene ricordarlo, gli anni in cui l'AIDS è in cima alle priorità tra i problemi dell'Occidente. Il vampiro appare come l'emarginato, che riesce a farsi accettare nella società, e dalla protagonista, dandosi la forma di un dandy, ma è dilaniato dalla consapevolezza della sua vera essenza.