sabato 10 marzo 2012

La terra degli uomini rossi

La terra dei Birdwatchers
Prima che i Portoghesi scoprissero il Brasile,
il Brasile aveva scoperto la felicità.
O. De Andrade


La felicità del Brasile, al di là dell’iconografia carnascialesca, consiste ed è consistita nella fecondità della sua terra ricca di vegetazione, minerali preziosi e metalli, che hanno sfamato per oltre cinquecento anni la macchina pesante dell’industria e della finanza europee e poi statunitensi, ma prima ancora e soprattutto nell’appropriatezza dei suoi abitanti al territorio. Ed è stata questa stessa appropriatezza o felice relazione “ecologica” ed “economica” ciò che gli uomini rossi hanno dovuto scontare nei secoli successivi alla loro “scoperta”. Oggi il Brasile fa parte del gruppo dei paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), paesi caratterizzati da realtà in via di sviluppo che si stanno affermando rapidamente nel contesto dell’economia globale al costo di perpetuare o incrementare, come avviene nella federazione brasiliana, le forti sperequazioni sociali ed economiche sia tra gli stati che al loro interno. Lo sviluppo post-coloniale non fa che riaprire l’antico squarcio che la terra e gli abitanti indigeni hanno sopportato nel corso della storia.
La foresta amazzonica viene disboscata per allevamento ed opere infrastrutturali e le vaste piantagioni di canna da zucchero vengono lavorate di nuovo con massiccio impiego di manodopera indios per produrre bio-combustibile. È interessante notare, dopo aver visto il film in lingua originale seguendo un suggerimento del regista, che la parola tradotta nei sottotitoli italiani come “terra” suoni nella liquidità del portoghese brasiliano come “fazenda”, fattoria, possesso, proprietà. Quasi che nella logica del fazendeiro non si possa più avere altro legame con la terra se non quello produttivo, e così appare melodrammatica e melensa allorché condotta sul versante affettivo e familiare la rivendicazione del vasto appezzamento da parte del proprietario contro gli indios occupanti.
A lui, al proprietario ereditario, il capo della comunità risponderà riempiendosi la bocca di terra, cioè incorporando ciò con cui egli e la sua comunità fanno corpo, per affermare che prima ancora di quel legame familiare e di quella eredità di diritto esiste il legame con la terra nella sua integrità. Non si tratta della rivendicazione di un mitico “stato di natura” ma di una diversa idea del rapporto che si intrattiene col luogo-mondo: prima ancora della proprietà c’è l’appropriatezza della cultura indio alla terra della “grande foresta” (Mato Grosso, appunto). Appropriatezza falsata però, purtroppo, dall’invasione dell’economia post–capitalista del consumo per la quale non ha senso la profonda religiosità con cui questi uomini vivono il loro territorio e il sentimento di appartenenza alla comunità ed alla terra rivendicata attraverso la loro Retomada, la loro rioccupazione silenziosa. Il diritto del mondo globalizzato rinnega questo sentimento e ciò rende la diversità culturale ed economica che questi popoli esprimono, poco più che un fantasma, un ombra della cultura dominante.
Gli spiriti della foresta e della terra diventano allora creature infestanti: lanciano maledizioni al cuore della famiglia dei proprietari, al sistema produttivo che ha rubato loro la felicità e ha spinto molti di loro all’alcolismo e soprattutto i giovani al suicidio. Il pensiero unico del conformismo democratico spegne qualsiasi possibilità di esistenza-sussistenza altra all’interno del sistema mondiale e le ragazze ed i ragazzi in cerca di futuro, si ritrovano schiacciati, repressi su di un confine che non consente altra identità felice che quella del fantasma.Da un lato, costretti dalla comunità a difendere un’identità che non può essere più conservata in un territorio così fortemente mutato, in quanto espressione creativa proprio del rapporto con quell’ambiente che non esiste più, e, dall’altro, a cercare di trasformare la loro tradizione e di trovare la propria identità nei valori e costumi del mondo contemporaneo che li costringe a lavorare duramente per guadagnarsi i soldi per mangiare o anche a rappresentare una romantica e mitica immagine di se stessi per i turisti (i Birdwatchers del sottotitolo) così sensibilizzati alla natura del luogo da essere totalmente indifferenti alla causa degli uomini ad esso connaturati. Si aggira così tra gli alberi della foresta lo spirito di Anguè, l’anima corporea del suicidato, di colui o colei che, secondo la tradizione religiosa degli indios Kaiowà, non ha potuto reincarnarsi attraverso l’evoluzione serena di una morte non scelta nel corpo del rospo e  continuare così anche dopo la “morte” (o la perdita della veste umana) ad abitare la foresta. Il rospo un animale ambiguo, di confine, che bene rappresenta il legame con la terra ed il fiume e quindi lo spirito della comunità indigena, ma che certo non favorisce i sogni dell’incontaminato paradiso tropicale per turisti evocato attraverso il richiamo agli uccelli. Viene da chiedersi: qualora questi indios vincessero la causa della loro retomada, la causa della terra e qualora venisse riconosciuto loro il diritto di appartenenza alla terra amazzonica, in che modo sarà possibile l’integrazione tra la loro cultura e la nostra? Riusciremo a riconoscere anche un’altra modalità di intendere le “risorse” disponibili sul pianeta e la nostra relazione con la terra, con gli esseri umani e l’ambiente, o non saranno forse loro, gli indios e la loro visione dell’oicos a doversi trasformare, ancora, per sopravvivere come individui nel mondo che nel frattempo la maggioranza gli ha costruito attorno. Certamente la nostra cultura, la cultura della maggioranza sarà e dovrà essere integrata nella loro (che la divoreranno in quanto notoriamente cannibali e in quanto una cultura consumistica non potrebbe essere altro che mangiata), ma noi saremo capaci di accogliere la loro cultura oltre “la riserva”, la loro visione del mondo, senza trasformarli in rospi? Quanta possibilità ha realmente la loro retomada di farli uscire dalla riserva? E noi che possibilità abbiamo di riprendere corpo per non divenire invece sempre più rarefatti come lo spirito distruttore di Anguè?
Marco Bechis ci racconta una domanda aperta e chiede insieme alla ONG “Survival”, che si manifesta poco prima dei titoli di coda del film, una presa di posizione da parte nostra, da parte degli spettatori al di qua dell’oceano. In realtà ciò che si chiede a noi tele-turisti del film è una donazione in soldi che consenta a queste comunità (in particolare quella di etnia Kaiowà del Mato Grosso do Sul, che hanno fatto da attori per il film-documentario) di sopravvivere e tenere viva la loro battaglia. Ma questo tipo di intervento non risponde concretamente alla questione di fondo che il film ha finito per sollevare: come possono integrarsi due culture, due visioni del mondo, della vita, della morte e dell’oicos tanto diverse da non intendersi nemmeno sulla sfera del diritto e di ciò che può essere definito legittimo rivendicare?
Bechis gioca con la soggettiva a proporre un’identificazione tra lo spettatore invisibile a cui il film sugli “uomini rossi” è rivolto e l’invisibile spirito Anguè. Lo spettatore del film è questo spirito distruttore contro cui il ragazzo sciamano (che alla fine ci guarda, guarda Anguè, rivolto alla camera) afferma la sua sopravvivenza come una vittoria, ed è proprio in questo gioco di ruoli che si invertono e si confondono, in questo rimando di sguardi traslati dalla distanza e di riflessi allo specchio degli obiettivi che riconosciamo il valore euristico della categoria del fantasmatico.

Stefania Nardone

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