Il pasto nudo (Nacked Lunch) di David Cronenberg, colore, 115', Canada, Uk, Giappone 1991.
«Sterminare tutti i pensieri razionali,
questa è la conclusione alla quale sono giunto»
W. Burroughs
I. Disinfestazione: Guglielmo Tell e il fantasma americano
Guglielmo Tell, eroe svizzero della fine del XIII secolo, fu imprigionato pur essendo riuscito a compiere un’impresa degna di memoria: centrare con una freccia la mela posta sul capo di suo figlio. L’assurdo atto imposto all’arciere alla mancata riverenza nei confronti del balivo locale: Guglielmo non s'era tolto il cappello. La consapevolezza della pericolosità dell’azione è ben testimoniata dal fatto che Guglielmo, al momento della prova, nascondesse sotto il mantello una freccia in più, per poter colpire il tiranno qualora avesse mancato la mela e ucciso il proprio figliolo (fatto che nella versione antigiudaica e protoprotestante elvetica non poteva certo avvenire). Pronto all’odiato sacrificio del suo Isacco per la libertà, l’eroe deve accontentarsi della gloria e della reclusione. La prigione è infatti il solo premio per le sue doti.
Ne Il pasto nudo, Will Lee, protagonista della storia, tenta la stessa impresa, solo che al posto di Gualtierino c’è sua moglie Joan, della balestra una pistola e della mela un bicchiere vuoto. Non c’è la lotta contro la tirannia (e nemmeno, del resto, lo sfondo di una nascente lega cittadina) bensì una maldestra resistenza al controllo sulle menti attuato dallo stato, all’interno del quale l’uso di sostanze stupefacenti diventa antidoto e insieme lubrificante del potere occulto. William Lee, il cui nome richiama evidentemente quello dell’eroe svizzero, sfuggito alle autorità giudiziarie di New York per l’assassinio della moglie e la detenzione di sostanze stupefacenti, è costretto, attraverso i messaggi di alieni costrutti che hanno forma di insetti, a rifugiarsi a Tangeri e redigere rapporti. Tutti i gesti della sua vita erano stati previsti e incoraggiati da un potere esoterico che si manifesta (e qui è veramente confuso) nei momenti allucinati sotto gli effetti della droga o forse in quei pochi attimi di lucidità. Intervalli in cui, probabilmente, il mondo ci appare veramente per com’è: governato da assurdi insetti che ci parlano e ci comandano attraverso ciò che maggiormente si avvicina ad un orifizio anale (trasposizione visiva organomeccanica tutta squisitamente cronenberghiana, questa, che non appartiene affatto al romanzo di Burroughs).
Nel consueto gioco di scatole cinesi del regista canadese, che fa somigliare la pellicola ad un quadro di Escher, in un continuo rincorrersi tra realtà e finzione, la valenza politico-mediatica del testo filmico si snoda grazie alle vicende personali del protagonista, che sono poi le stesse dell’autore del romanzo pseudo-autobiografico. Molto più che al romanzo, il regista canadese infatti si ispira alla vita dell’autore: i due amici che raggiungono Will a Tangeri e lo incoraggiano a finire la sua opera non sono presenti nel testo ma nella vita di W.B. e sono i già famosi scrittori della Beat, Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Si sottolinea quindi la forte contestazione della società americana dell’epoca, che nel girato di Cronenberg si articola attraverso una satira cromatica, che fa da contraltare all’angoscia psicotica e allucinatoria della trama. Il nostro maldestro Guglielmo Tell si ritrova a sfuggire dalla legge e dalla droga, per scoprire solo alla fine che il medico, il solo che avrebbe potuto risolvere la sua stessa dipendenza, era in realtà il suo stesso spacciatore. Una metafora dell’azione mediatico-repressiva di ogni stato, ma in particolare di quello americano dell’epoca molto ben sintetizzato dalla frase che il sedicente dottore Mister Benway afferma: «Deploro la violenza. È così inefficace».
Nel consueto gioco di scatole cinesi del regista canadese, che fa somigliare la pellicola ad un quadro di Escher, in un continuo rincorrersi tra realtà e finzione, la valenza politico-mediatica del testo filmico si snoda grazie alle vicende personali del protagonista, che sono poi le stesse dell’autore del romanzo pseudo-autobiografico. Molto più che al romanzo, il regista canadese infatti si ispira alla vita dell’autore: i due amici che raggiungono Will a Tangeri e lo incoraggiano a finire la sua opera non sono presenti nel testo ma nella vita di W.B. e sono i già famosi scrittori della Beat, Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Si sottolinea quindi la forte contestazione della società americana dell’epoca, che nel girato di Cronenberg si articola attraverso una satira cromatica, che fa da contraltare all’angoscia psicotica e allucinatoria della trama. Il nostro maldestro Guglielmo Tell si ritrova a sfuggire dalla legge e dalla droga, per scoprire solo alla fine che il medico, il solo che avrebbe potuto risolvere la sua stessa dipendenza, era in realtà il suo stesso spacciatore. Una metafora dell’azione mediatico-repressiva di ogni stato, ma in particolare di quello americano dell’epoca molto ben sintetizzato dalla frase che il sedicente dottore Mister Benway afferma: «Deploro la violenza. È così inefficace».
Impossibile non pensare al Kubrick di Arancia meccanica.
E tuttavia il gioco sottile del potere non si esaurisce sotto un’unica dipendenza.
II. Infestazione. La macchina, l’insetto e il complotto omosessuale.
Chi era William Lee prima di essere un fuoriuscito, uno scoppiato? William era un libero professionista disinfestatore di scarafaggi. Lo sterminatore. Dopo un trascorso non proprio facile riesce a collocarsi nel mondo come colui che disinfesta le case, che distrugge gli insetti annidati nella tappezzeria dell’americano medio. Eppure l’ambivalenza della figura si nota alle prime battute, quando Will scopre l’animo dello scrittore, e non di un qualsiasi romanziere, come colui che «stermina tutti i pensieri razionali». Lo scarafaggio che rappresenta le inquietudini e le ossessioni, nell’interpretazione onirica può simboleggiare anche l’ambiguità sessuale. Viene capovolto dunque nella figura di Will, che da disinfestatore si propone di sterminare tutti i disgustosi insetti e da scrittore, invece, di sterminare i pensieri razionali. È evidente un ribaltamento della rappresentazione onirica, in questo caso infatti gli scarafaggi rappresentano veramente i pensieri razionali, legali, massificati. Di fatti si nascondono sotto la macchina da scrivere, lo strumento del Will scrittore, e vengono a coordinarci come fossero agenti dei servizi segreti. L’inconscio e il super-io coincidono in un complotto continuo a danno degli esseri umani. È sotto il consiglio di uno di questi esseri che Will uccide la moglie, tossicodipendente a sua volta dallo stesso insetticida che il marito utilizzava per il proprio lavoro. Persa la moglie, il lavoro, e la sostanza stessa della sua dipendenza, lavorativa e tossica, il protagonista si allontana dal sopramondo per raggiungere l’Interzone.
A Tangeri Will Lee, è costretto a questo punto a vagare in quelli che sono veri gironi danteschi sottoforma di Kasba e a disinnescare i complotti continui delle macchine-insetti. Ma soprattutto è costretto a fare i conti con la sua ambivalenza di genere. Nell’Interzona la seduzione omosessuale è continua e, ingenuamente, il protagonista sembra suggerire allo spettatore un’incapacità di accettare la propria omosessualità. Ma in realtà il discorso appare molto più complesso e la rappresentazione del controllo mediatico si spinge ai limiti con metafore ardite e allucinate. Non ci appare dunque un William impossibilitato ad accettare la propria omosessualità, fatto a cui cede in realtà con serenità tale da scoprire il tratto più complesso, ma ancora una volta si delinea il profilo in ombra del potere.
Un altro scrittore incontrato a Tangeri spiega a Will, e anzi gli mostra, come sta riuscendo ad uccidere la propria moglie con la forza del pensiero. Suggerisce in questa scena l’azione repressiva del patriarcato che distrugge la donna con il pensiero, tenta e sovreccita l’uomo con una massiccia dose di desiderio indotto e repressione e ci rende infine tutti dipendenti.
La tematica di genere è cruciale: «le donne non sono essere umani». Il potere patriarcale si palesa nell’autistica e onanistica tendenza ad amare il simile e dominare il diverso, ad annientare il diverso e cavalcare il simile. In questo senso il coro di sfinteri nascosti nelle macchine da scrivere non è tanto una freudiana incapacità di accettare la propria omosessualità, ma l’incisione profonda nella mente allucinata di Burroughs, operata dall’azione seduttivo-repressiva dello stato. Sterminati i pensieri razionali, mi restano scheletri animati di prescrizioni, desideri morti e verità inconfessabili alle quali solo la dipendenza può dare sollievo.
La scrittura, il senso. Il potenziale euristico e personale della scrittura è ben sintetizzato dall’affermazione di Burroughs: «se non avessi ucciso mia moglie non avrei mai scritto». L’evento, quello stupido gioco finito male, dà avvio alla reale vocazione del protagonista. Ma guai a farne una contrizione, un deterrente ai sensi di colpa. Will uccide la sua musa. La donna, la sua donna che mai niente sussurra all’uomo, attraverso la quale passa solo il corporeo messaggio della bellezza, crea all’autore un’assurda dipendenza: Non posso scrivere senza averla prima uccisa.
III. Il pasto nudo. La dipendenza dalla fuga dalla dipendenza
Così su un finale che ricorda un po’ Blade Runner, in cui il protagonista percorre la distanza che lo separa dalla meta, con la sua donna, il suo ben congeniato costrutto, la sua musa ad orologeria, William può passare finalmente dall’Interzona ad Annexia. Il nome del paese, che evoca dimenticate frontiere sovietiche, fa eco all’inglese annex: annessione, ma soprattutto dipendenza. Davanti alla legge doganale Will deve dimostrare di essere uno scrittore e poiché non basta per gli agenti mostrare i suoi strumenti del mestiere, la penna, il protagonista è costretto a dar prova della sua professione. La sua musa, Joan, sua moglie, è sensualmente adagiata nel sedile posteriore di un improbabile caravan zigano. Ripescata dall’interzona sotto le sembianze di un’allucinazione, Joan si presta prontamente alla nuova prova del marito. Lo scrittore, novello Tell, uccide nuovamente la sua musa e firma così la sua opera. Si guadagna Annexia. Si guadagna la dipendenza. Si guadagna la prigionia, o forse la libertà. Le droghe aumentano la percezione, ci fanno vedere mondi dietro al mondo, ci danno intatti i fili del reale e della finzione senza passare attraverso l’obsoleta macchina tessile della razionalizzazione. Le droghe, l’occorrente che Lee mostra inconsapevolmente agli amici Martin (Allen) e Hanck (Jack) sta alla narrativa come la macchina da scrivere sta allo scrittore: sono mezzi attraverso i quali raggiungere uno scopo. A questo punto la domanda più interessante però si pone non tanto rispetto alla dipendenza/arte, quanto alla tossicodipendenza come fuga dalla realtà della quale si è dipendenti allo stesso modo. Impossibile evitare i giochi di parole in questo senso, tuttavia il good trip, il viaggio, il pasto nudo, è anche l’opera beat restituita intatta dallo scalfire del flusso di coscienza. Un sogno scritto, che ti meraviglia una volta letto e che pensi di non averlo scritto, non ricordi di averlo fatto, quanto meno. Lee non oppone mai resistenza al fluire delle cose. Lee non riesce a centrare quella mela come Guglielmo. Egli fugge abbandonato al fluire dell’inconscio, al ciondolare di un viaggio nella mente allucinata. Costretto a scappare sempre più dalla realtà onirica e assoggettante del potere e dai nuovi e poi vecchi lidi illusori, attraverso i quali scrivere è sempre un delitto colposo, o un atto eroico mancato.
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