giovedì 8 maggio 2014

Tutta la vita davanti

Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, 117' - Italia 2008



"Noi siamo persone speciali e facciamo un lavoro...speciale!"

Paolo Virzì, ispiratosi per questo film al libro Il mondo deve sapere della blogger sarda Michela Murgia, esplora con spirito comico/amaro l'inferno dell'odierno precariato, mondo fantasmatico reale in cui viene a trovarsi Marta, ventiquattrenne siciliana trasferitasi per gli studi a Roma, una neolaureata con lode, abbraccio accademico e pubblicazione della tesi in filosofia teoretica, ma che, seppur così preparata, incontra grosse difficoltà a trovare un lavoro confacente ai suoi studi. 




La protagonista si troverà da precaria a dividersi la giornata tra le mansioni di baby sitter e quelle di telefonista nel call center di un’azienda. Per Marta inizia un viaggio confuso e impervio in cui riuscirà però a farsi valere e a migliorare il pazzo mondo in cui vive. Tutti coloro che incontra sono personaggi che si illudono di aver raggiunto un obiettivo per poi rendersi conto che è tutto falso e utopico.
Paolo Virzì evidenzia in questa pellicola lo stato attuale della generazione dei trentenni, vittime di un sistema sociale politico che non li riconosce come ingranaggio base nel mondo del lavoro, tasselli di un mosaico frantumato che non trovano collocazione.
Il dibattito che segue dopo la proiezione è animato e solidale. La viva testimonianza di due dei partecipanti al Cineaperitivo che hanno vissuto in primis la stessa esperienza della protagonista Marta ha rappresentato plasticamente la delusione e la rabbia per l'attuale situazione lavorativa. Ci si chiede "perché si è giunti a questo?", "saremo capaci di uscirne fuori?", "ci sarà un futuro per questi trentenni nel mondo del lavoro?".


"Quando c'erano le manifestazioni ci portavano anche me, e mi piaceva un sacco, perché era come una festa: ci andavano tutti e novemila e vedessi come erano belli, forti, allegri, con le tute blu, coi cartelli, gli striscioni. Lì in mezzo anche l'ultimo arrivato si sentiva invincibile: se toccavano uno toccavano tutti"

Elio Germano in una scena del film Tutta la vita davanti.


La riflessione di Nunzio Industria

"Come siamo arrivati a questo?" è la domanda che si pone e ci pone Marina a fine proiezione. Una domanda che necessiterebbe di tante risposte. Approfittando invece dei miei limitati schemi mentali io provo a rispondere con una esemplificazione.

In definitiva, credo che la natura umana non abbia mai fornito motivi di ottimismo, a prescindere dalle rare individualità, sin dall’alba delle prime civiltà a questo che riteniamo un incerto crepuscolo, magari soltanto perché lo stiamo vivendo. 
Quali grumi di sangue e carne senziente, ci siamo prodotti in affascinanti e mitiche ricostruzioni di immaginarie età munifiche, equivocando magari brevi periodi della storia nota, e soprattutto additando quella ritenuta inconosciuta. Parimenti, per ammorbidire la realtà ci siamo inventati religioni e ideologie. E oggi delusi, fuor dalla tela, continuiamo a interrogarci sui perché del fallimento. 
Credo ci sia almeno un ossimoro a spezzare la speranza (mutando il pessimismo di un collega spettatore di cui non ricordo il nome): l’uomo è un animale sociale, ma parimenti tale il leone e tante altre fiere marcisce nel verme forse innato della prevaricazione. Come vedete mantengo la premessa della mia semplicità con una risposta elementare. Anche debole e che presta bene il fianco a chi meglio e più saprà dire. (Evito di ricadere come nel primo film in un qualcosa di più articolato, ché poi mi son vergognato leggere per non annoiare. Oltretutto questo mezzo è meno invasivo perché chi come me scrive troppo lo si può anche ignorare tanto non me la prendo)
Aggiungo che siamo stati “bravi”, tra i possibili modelli socio-economici, complice magari un progresso tecnologico che corre oltre le nostre capacità intime cognitive per farne buon uso, ad esasperare esponenzialmente la nostra attitudine prevaricatrice, innescando detonatori finanziari in un gioco solo apparentemente più pulito della guerra fredda e delle testate nucleari. 
Io per principio rifuggo il complottismo. Penso però lo sfascio sia la conseguenza giusto a metà di due componenti. Estremizzo e semplifico ancora volutamente. La prima una gran partita di Risiko Mondiale pianificata tra i Grandi Player, con istruzioni nella catena di comando discendenti, a banche, lobby, sino all’ultimo dirigente. Uno di questi mi ha spiegato il gioco delle royalty guadagnate nel piazzare la spazzatura. Istruttivi invece due reportage che spiegano il meccanismo delle bolle speculative e dei quali magari posterò i link. 
Ovvio che tutti questi “giochi” non hanno certamente a scopo ultimo una improbabile nuova Auschwitz per fame dell’uomo comune, anzi: perché “gasare” le galline? Ma che restano comunque pedine. All’occorrenza sacrificabili, almeno sino ad un certo punto. 
E qua entra l’altra metà di concausa allo sfascio che viviamo: ovvero il gioco s’è fatto tanto complesso, che anche ai registi sfugge spesso di mano. Ripeto: non una o cento menti, che sarebbe facile scoprire ed “eliminare”, ma una rete. Una avida pandemia a ragnatela il cui pensiero “educato” dal modello resta lo stesso sull’intero pianeta, che in accordo o ignorandosi, persegue il noto bene comune (per loro ovviamente) dell’accumulazione.
E noi? A noi estranei al gioco, resta il disagio, che ha ben estrinsecato con commovente sincerità, anche per conto di tutti noi, la nostra Roberta. Che non trovava forse le parole per esprimerlo. Ma rendeva bene l’eterno concetto del “chi sono?”. Io stesso, non sapendo cosa rispondere, son ricorso a una battutaccia. Che in fondo non voleva essere tale, comunque non riduttiva di un malessere che pervade me per primo.
Insomma tutto questo squallore del momento ci porta però anche a confondere due piani: sistemi socio-economici e microsistema individuale. Il primo dobbiamo chiederlo ai governanti, alla politica in senso lato, magari riappropriandoci della stessa o almeno creare un giusto humus, affinché chi ci rappresenta sia degno di essere tale, per giungere a quel presupposto materiale, erroneamente dato per risolto e scontato il secolo scorso, giusto “premio” dell’aver scelto noi aquile occidentali il modello vincente. 
Riguardo invece il nostro microcosmo individuale, non solo ma soprattutto per chi ha dismesso dei, santi e padreterno, siamo messi male. Nel senso che questo compito terribile spetta soltanto al nudo io. Fatte salve le premesse, ovvero aver superato nell’insieme dei bipedi vestiti o scimmie nude o formiche o qual paragone piaccia a ciascuno, i bisogni essenziali primari, magari trovando preventivamente anche l’accordo “dove”, l’asticella andrebbe posta a minimo comun denominatore. 
Piccolo e ignorante uomo io panacee e scorciatoie non ne conosco. Posso soltanto spingermi a riproporre ricette conosciute. Che magari nell’intimo ciascuno di noi presenti già ritiene possano funzionare, o quantomeno costituire un innocuo compromesso di illusioni, da cui trarre almeno le motivazioni per il quotidiano. Ci si ritrova in fondo insieme in questa proiezione. Senza altro scopo che la cultura. Atta a sviluppare sensibilità, e soprattutto senso critico. Conseguente empatia e solidarietà, piuttosto che aggressività. E amore.

martedì 29 aprile 2014

Il grande capo

Il grande capo di Lars von Trier, 99' - Danimarca, Svezia 2006


L'articolo del "Mattino"
dedicato ai Cineaperitivi
Si apre questo cineforum con una commedia che finisce male tra ironia e parossismo.
Il grande capo è uno psicodramma enigmistico che svela i meccanismi di un sistema acefalo e inarrestabile, dove la legge e la cultura sono funzionali esasperatamente ad accrescere l'ego dei protagonisti, in un individualismo imbarazzante e quasi tenero.
Debutta al cinema con questa pellicola la tecnica dell'automavision e del lookey.


"Sviluppo agile, teoria delle transazioni why not..."


"Battute non credibili eh? Certo che lei è veramente il massimo: 'una pessima recita, le solite frasi fatte'. Questo è ciò che succede quando colpisci il pubblico dove è più vulnerabile. Ma non viene mai in mente a nessuno che il vero obiettivo della commedia di oggi è esattamente svelare la commedia? La catastrofe è avvenuta ormai, la domanda è cosa succede dopo la catastrofe. basta che sia tutto 'credibile, credibile, naturale...' ma cazzo cosa volete da me tutti quanti?"


Sul narcisismo morale.
Una breve riflessione di Nunzio Industria

Nel recente dibattito post cineforum si adducevano molti dei mali dell'uomo ad un narcisismo morale esasperato di coloro che hanno qualsivoglia leva di "potere", in piccola come in grande scala. Io convengo da molti anni ormai con questa osservazione, stante il pessimo e non richiesto privilegio di aver avuto modo di verificare anche nell'esperienza quotidiana quanto siano spesso oscene le motivazioni e le molle interiori dei tanti che per arrivismo banditesco gestiscono talune realtà, lavorative o amministrative o politiche che siano. Quando poi al narcisismo si associa l'ignoranza, si assurge al circo e ai fenomeni da baraccone... e chiaramente ogni allusione è voluta e assolutamente ispirata alla realtà. Purtroppo.


domenica 12 maggio 2013

Spot Lancia Y (2011) - Il lusso è un diritto

Decostruire la pubblicità: Lancia Y (2011)



C’era una volta la reclame. Un manifesto, un articolo, un messaggio, reclamizzavano un certo prodotto per renderne nota al pubblico l’esistenza. È questa, in fondo, la pubblicità: la diffusione pubblica di una notizia. La pubblicità era affidata a figure popolari come il pazzariello napoletano. Oppure venivano pubblicati inserti giornalistici che descrivevano accuratamente le caratteristiche del nuovo prodotto, in modo da convincere il pubblico della sua bontà e utilità. Poi si ricorse alla propaganda, invenzione del periodo fascista (pur se non invenzione fascista), consistente nell’arte di convincere, attraverso la comunicazione pubblica, intere masse. Manipolarne la psicologia – la psicologia di massa, come si prese a dire. La propaganda cominciò a sfruttare le tecniche della pubblicità a fini politici, inserendo però, nella stessa pubblicità, caratteristiche nuove, divenute poi tipiche della pubblicità commerciale come la conosciamo. Il messaggio, in primo luogo, che venne via via semplificandosi. La ricerca del controllo. L’imperativo diretto. Lo slogan. «I want you for the US Army».

Spot CheBanca! (2011)

L’inno alla dissoluzione: il carnevale della paura.


La campagna pubblicitaria di CheBanca!, curata da casiraghigreco&, si è imposta negli ultimi anni come una delle più definite e caratterizzate. La formula, standardizzata, è molto aggressiva. Una canzone, di solito molto nota, legata alla tradizione popolare italiana, facilmente riconoscibile ed orecchiabile, di cui presumibilmente il testo è ben noto, ricontestualizzata per veicolare il messaggio pubblicitario e le offerte della banca; un intero esercito di festeggianti coribanti che danzano e cantano, in perfetto stile Broadway; i colori vivaci e netti di un cartoon: sono questi gli elementi immediatamente riconoscibili nella serie di spot di questa campagna. I protagonisti, quasi sempre sobri e ben vestiti, tutto sommato abbastanza anonimi da potersi identificare intuitivamente con l’italiano medio, indicano in maniera immediata il pubblico a cui volta per volta lo spot si rivolge: professionisti, lavoratori, novelli sposi, pensionati, donne in carriera. Il musical che fa da cornice alla quotidianità suggerita da questi personaggi in giro per la città o nei propri uffici vuol essere ciò che ogni musical, in fondo, è sempre stato: un intrattenimento esorcistico che tenta di iniettare dosi di ottimismo nello stagnante mercato finanziario.

Spot Diesel (2010)


Be Stupid - Filosofia Diesel


La Diesel ha lanciato nel 2010 una massiccia campagna pubblicitaria molto essenziale: una scritta a colori molto accesi posta su sfondo nero, o in certi casi sullo sfondo di una foto che sottolinea il messaggio del testo.
L’intera “filosofia” proposta dalla Diesel è esplicata nel video che si trova sul sito della ditta nonché, ovviamente, su YouTube. Ma i manifesti che hanno letteralmente invaso la cartellonistica urbana mostrano soltanto alcuni frammento, decontestualizzati, in cui si ripropone con insistenza l’opposizione tra “smart” e “stupid”. Ovviamente la forza di questa pubblicità sta tutta nella diffusione, ovvero nella ripetitività del messaggio, e gode soprattutto della circolazione: insomma, come ogni campagna pubblicitaria, si avvantaggia tanto della critica – e forse tanto più della critica – quanto dell’approvazione.

Spot Ferrarelle (2009)


Il bicchiere mezzo pieno


Ricordate la campagna pubblicitaria della Ferrarelle di qualche anno fa? Quella del bicchiere mezzo pieno, per intenderci. Romantica, suasiva, elegante, efficace.
Si può notare una somiglianza fortissima con la campagna pubblicitaria della Fiat che avevamo già analizzato in questo laboratorio (http://proiezionifantasmatiche.blogspot.it/2013/04/spot-fiat-500-2007.html). In effetti siamo sullo stesso terreno: entrambe puntano su una forte emozionalità; entrambe utilizzano immagini (in cui il bianco e nero svolge un ruolo chiave) cariche di significatività psicologica; entrambe hanno un testo molto lirico, sottolineato da una musica semplice, romantica, molto suggestiva, stile Final Fantasy, per intenderci…

giovedì 2 maggio 2013

La pelle che abito

La pelle che abito di P. Almodóvar, col, 117', Spagna, 2011



Elogio della superficie, del colore, della forma autonoma dall’assenza, della follia dell’occhio che vuole solo guardare per guardarsi senza riflettere, per focalizzare la dimensione di un abitare ormai (o forse da sempre?) privo di vie di fuga, artificiale, sì, ma non per questo meno vero di quello autentico immerso nel flusso del tempo senza montaggio.
La storia che racconta Almodóvar mi lascia perplessa: mi sembra interessante, ma mi delude; mi piace quello che vedo: immagini che mi proiettano in quel cinema fatto di cura per l’estetica della comunicazione visiva; rapide sequenze che diventano contenitori di altre cose che amo e mi fanno sentire a casa (opere d’arte familiari, il bianco e nero che mi proietta nella dimensione corporea e poetica del cinema muto o di quello che vuole citarlo; la scrittura sul muro che mi ricorda le pagine dei libri o gli appunti ornati da disegni riflessivi che si fanno quando si ascolta sognando), ma il racconto mi respinge, a tratti mi sembra banale, scontato, prevedibile. E poi alcune immagini sembrano volersi prendere di gioco di me, ricucendomi addosso, attraverso la pubblicità en passant di noti prodotti in commercio, la quotidiana veste da consumatrice, che guarda in tv gli spot di trucchi o motociclette, mentre quello che cerco, quando guardo un film, è riconoscermi solo come consumatrice interna, come divoratrice di fotogrammi e di storie che emozionano e fanno pensare o ricordare, di musiche qualche volta, quando l’intento della regia non è quello di ventriloquizzare ciò che vedo, ma di renderlo dissonante, di creare strade parallele.