Questi Fantasmi!, di E. De Filippo, commedia in tre atti (edizione televisiva), b/n, Italia 1962.
«C’era un vecchio con la barba che veniva a casa quando ci trovavamo tra amici perché raccontava di essere uno specialista di sedute spiritiche. Per convincermi, mi diceva che spesso, tornando a casa sua, trovava un tipo che usciva e lo salutava. Diceva di essere un fantasma. Io gli chiesi: Lei è sposato? E sua moglie non dice nulla? Non se ne accorge – mi rispose – non lo vede. Così nacquero Questi Fantasmi!»[1]

La capacità di traduzione della commedia eduardiana (non solo di questa, per la verità) si rivela in tutta la sua potenza a partire dall’analisi lucida e profetica che l’autore compie sulla società dell’immediato dopoguerra. La Napoli e l’Italia del 1946 vengono rappresentate come mondo del caos e dell’ignoranza in cui è l’apparenza la sola realtà che conta. La radicale trasformazione della società comporta, sul lungo periodo, conseguenze che a non tutti i contemporanei potevano esser chiare e che l’occhio attento di Eduardo individua senza difficoltà alcuna.
Compare sulla scena, in senso figurato e non, un nuovo personaggio, ultimo prodotto sociale: l’aspirante piccolo borghese, o meglio, “il borghese piccolo, piccolo” come, in senso dispregiativo, talvolta lo definiva Eduardo.
Non è propriamente questo il caso dell’anima in pena Pasquale Lo Iacono, i cui contorni vengono tracciati dall’autore in maniera sfumata lasciando allo spettatore l’arduo compito di decidere se si tratti di un innocente credulone o di un furbo profittatore o, ancora, di un disperato pronto a tutto.
Ma, al di là della simpatia o antipatia che può suscitare quest’anima che si dibatte, la caratteristica principale che contraddistingue l’aspirante piccolo borghese è l’ossessione del denaro ed il relativo riconoscimento sociale; in questo senso la figura di Pasquale è assolutamente ben delineata. Si intestardisce nella convinzione che non vi sia alcuna relazione durevole che non abbia un corrispettivo in denaro. E nessuna delle anime che popolano il palcoscenico tenta di dargli torto. Raffaele, il portiere (anima nera) lo accoglie in casa cercando di definire dal principio il suo compenso; Alfredo (anima libera), amante della moglie, nell’esposizione dei propri piani, non fa altro che parlare di soldi, sostenendo, al rovescio della medaglia, la medesima teoria di Pasquale.
Ma il denaro, e qui spunta la finalità didascalica di Eduardo, è capace di sovvertire la realtà catapultandola nella finzione! È sempre il denaro, con la sua immaterialità, che rende gli uomini e le donne fantasmi. La grande intuizione consiste proprio nella rappresentazione di questo piccolo purgatorio quotidiano in cui si affollano figure evanescenti in attesa di condanna definitiva o liberazione.
Il tema del “denaro”, caro all’autore, è analizzato anche in Napoli Milionaria (1945) dove, però, non è il dopoguerra il nodo cruciale ma la guerra stessa. In una condizione di vita fuori dall’ordinario, il denaro riesce a smaterializzare i corpi ma vi è una giustificazione, in fondo: essa sta nella straordinarietà stessa della situazione. La fine della guerra ristabilisce l’ordine.

Immagine sbiadita dei vivi che furono (prima della guerra), sono questi fantasmi.
Nessuna netta divisione tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi; essi convivono, ma non si confondono. Il professor Santanna (anima utile ma non compare mai) a cui è affidato il ruolo di ristabilimento del reale, vede i fantasmi, ci parla, ne condivide le abitudini (il cerimoniale del caffè) ma non invade la loro scena. La comunicazione verbale e gestuale costituisce la modalità di convivenza. Quella stessa comunicazione che permette a Pasquale di confessarsi ad Alfredo ma non a sua moglie; quella stessa comunicazione che Eduardo individua come chiave di accesso (Pasquale alla moglie: «Marì , avimmo perso a chiave»), unica speranza di salvezza.
[1] Eduardo in un’intervista al «Corriere della Sera», 17 gennaio 1983.
Maria Rosaria Falcone